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Bosnia Erzegovina Corpi Civili di Pace

Voltare pagina, ma non troppo

Quest’anno in Bosnia Erzegovina l’inverno fatica ad arrivare. La neve cade copiosa, ma non rimane per molto, si scioglie e lascia il posto a fiumi d’acqua che scorrono e allagano le strade.

Scritto da Diana Cossi, Corpo Civile di Pace con Caritas Italiana

È un po’ come la vita da queste parti. All’inizio tutto si copre di una coltre di ottimismo e di positività, ti sorprendi a pensare a come “convivano bene assieme”, a come abbiano risolto i propri problemi. Poi, però, questa impressione piano piano si scioglie, come neve al sole. Perdi le lenti rosa con cui avevi visto il mondo e cominci a vederlo per quello che è: c’è ancora molto da fare, da lavorare, da cambiare, da spiegare o, chissà semplicemente da “dimenticare”, voltare pagina ed andare avanti.

In questo paese la pace è stata imposta quasi 23 anni fa con un trattato che effettivamente ha raggiunto il suo obiettivo: il termine del conflitto armato, la fine delle uccisioni e la deposizione delle armi. Ma il Conflitto, quello interpersonale, interetnico, interreligioso, continua, latente, strisciante, avvelena l’anima delle persone.

In questi mesi io e il mio collega, Domenico, ne abbiamo viste tante, ma sicuramente per noi è stato di grande impatto vivere le manifestazioni e le reazioni a seguito delle ultime sentenze della Corte dell’Aja. Il giorno della condanna del generale Mladić (nel novembre scorso) rimarrà impresso nella nostra memoria: un maxi schermo davanti al principale centro commerciale della città, una strana quiete e un silenzio particolare, in fondo è mezzogiorno, una delle ore più caotiche qui a Sarajevo. Arriva la sentenza e… non succede niente. Ci aspettavamo dei disordini, delle proteste, dei cortei. Niente. Pensiamo che forse, allora, le cose non siano poi così male, che forse le persone abbiano cominciato a “digerire” ciò che è stato e ciò che è stato fatto. Ecco ricominciare a nevicare, una sottile coltre riprende a coprire le strade, la cattedrale ortodossa, quella cattolica, la sinagoga e la moschea. Ma non dura. Dopo qualche giorno, il suicidio in diretta del generale Praljak viene accolto come un martirio: le reazioni, da parte di tutte le fazioni, sono forti. Ecco che di nuovo ci ritroviamo coi piedi in una pozza e la realtà riluce, ripulita dalla recente nevicata.

Aver collaborato alla scrittura di un dossier di Caritas Italiana sulle mine nei Balcani è stata l’occasione per entrare ancora più a contatto con ciò che i giovani realmente pensano della guerra e dei problemi ad essi connessi. Ho raccolto i dati sulla conoscenza degli studenti di scuola superiore riguardo alla presenza di mine, ma una domanda del questionario chiedeva di “spiegare in una o due frasi cosa, secondo te, sia stata la Guerra in Bosnia Erzegovina”. La reticenza nel rispondere e le risposte raccolte permettono di ricreare un quadro che non assomiglia per niente ad un bel paesaggio innevato. Piuttosto sembra un paesaggio alluvionato. I giovani non sono desiderosi di parlare del passato, vogliono realmente girare pagina, andare avanti. Sono però cresciuti in un mondo di odio, con una retorica incentrata sull’etnia e sulla religione di appartenenza. Come può stupire perciò che non sappiano distinguere “cittadinanza”, “religione di appartenenza” e “nazionalità”? O che ci siano estremismi e radicalismi da tutte le parti? È triste ma è chiaro che c’è ancora molto da lavorare; la riconciliazione è un processo appena iniziato e, ancora, ha bisogno di tempo per affermarsi e radicarsi nelle coscienze. Come diceva il vescovo ausiliare di Sarajevo Pero Sudar, in un’intervista che abbiamo avuto il piacere e l’onore di fare, “le persone hanno ancora le coscienze minate” e questo processo di sminamento è, indubbiamente, il più difficoltoso.

Non che la presenza sul territorio di campi minati aiuti, in concreto, il processo riconciliatorio. Come abbiamo potuto vedere, però, non è il problema principale per i bosniaci-erzegovesi, anzi. Spesso solo dopo averne parlato si accorgono di quanto territorio in realtà non possa essere utilizzato e della perdita che questo crea, non solo al Paese, ma in termini di denaro, di mancato profitto, mancato turismo, ecc. Qui le persone hanno realmente metabolizzato la presenza degli ordigni nel territorio, tanto da dimenticarsene. Nello stesso modo hanno metabolizzato la presenza di ordigni interni, nelle proprie anime. Lo sminamento è un procedimento estremamente delicato, lungo e pericoloso, ma necessario. Si procede a fatica, metro per metro, centimetro per centimetro, comunità per comunità, individuo per individuo, ma alla fine si raggiungerà la messa in sicurezza. Alla fine.

28 Febbraio 2018/ da Redazione Antenne di Pace

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