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Australia Caschi Bianchi

IN AUSTRALIA, UNA POVERTA’ NASCOSTA

“Pensavo che Sydney fosse un contesto con molti punti di incontro tra culture diverse, cosa che invece ho scoperto non essere”: Gianmarco ci racconta il suo servizio civile a Sydney e la speranza in una definizione di “Patria” diversa da quella più diffusa, legata a confini e Stati

Scritto da Gianmarco Rubbini, Casco Bianco Apg23 a Sydney

In Australia vivo a Sydney, in Casa Famiglia: rispetto alle altre realtà della Comunità Papa Giovanni XXIII è un contesto sui generis in quanto sei immerso in un ambiente dove la “povertà”, nel senso più ampio del termine, non è facilmente riconoscibile.

Il mio Servizio Civile è molto eterogeneo: due volte la settimana visito i residenti degli “Scalabrini Village”, case di riposo fondate dall’ordine scalabriniano per gli italiani arrivati nel dopoguerra. Non si tratta di un servizio, di fare qualcosa, ma semplicemente di offrire la nostra presenza e scambiare due chiacchiere con persone che soffrono molto la solitudine. Questo tipo di volontariato mi ha fatto riflettere profondamente sull’importanza della famiglia, sulla solitudine e sul valore delle relazioni.

Il giovedì pomeriggio lo trascorriamo al Detention Center di Villawood, dove si trovano rinchiuse sia persone entrate regolarmente in Australia ma che per varie ragioni hanno perso il visto, che richiedenti asilo arrivati illegalmente via mare. Il centro di detenzione è un luogo di difficile accesso, con rigide norme in materia di sicurezza, al suo interno ci rechiamo in un’area comune predisposta per le visite dove incontriamo i “residenti” che volontariamente decidono di recarsi lì ed incontrare qualcuno con cui parlare, sfogarsi e passare del tempo. La cosa più frustrante per i detenuti è non sapere quando riavranno la loro libertà, devono semplicemente aspettare, nessuna data, nessuna prospettiva. Mentre l’ufficio immigrazione australiana ha l’unico obiettivo di rimpatriarli, utilizzando le più svariate forme di pressione.

Da poco tempo abbiamo iniziato anche un’attività con le persone senza fissa dimora: l’ultima cosa che mi aspettavo era trovare così tanti homeless in una città come Sydney, in un Paese come l’Australia. La povertà, come dicevo, è molto nascosta e assume forme non facili da identificare se non guardando oltre l’immaginario comune della ricca metropoli.

Pensavo che Sydney fosse un contesto con molti punti di incontro tra culture diverse, cosa che invece ho scoperto non essere: ho la percezione di una moltitudine di comunità che convivono separatamente, senza nessuno sforzo verso una sostanziale integrazione e ricerca di valori comuni. A Sydney non riesco a percepire una chiara Identità australiana, quanto piuttosto una moltitudine di identità etniche e culturali che convivono ma faticano a creare una vera e genuina condivisione.

In relazione alla mia esperienza di Casco Bianco, questo contesto mi fa riflettere sul significato di Patria: vorrei che la “versione” più diffusa, legata a Stati e confini, divenisse un concetto più allargato e trasversale, improntato sulla condivisione di valori e diritti. Spesso penso che riconoscere e sfruttare un’opportunità sia solo questione di coincidenze fortunate, ma allo stesso tempo siamo noi a decidere quale strada percorrere, quali relazioni approfondire e in quale contesto vivere. L’esperienza che sto vivendo mi conferma che la vita è proprio un mix di casualità e libero arbitrio.

Immigrazione in Australia

Il Migration Act 1958 costituisce il quadro giuridico che regola i flussi migratori in Australia.

Dal 1992 è attivo un sistema di detenzione obbligatoria per qualunque individuo, non cittadino australiano, presente sul territorio nazionale privo di regolare visto. Alcune statistiche aggiornate al 31 gennaio 2017 riportano i seguenti dati: 1.351 persone recluse in centri detentivi; 568 in community detention (residenze non controllate fisicamente ma con obbligo di pernottamento); 25.252 hanno ottenuto un Bridging visa, cioè un visto temporaneo che però non permette di trovare un’occupazione; 1.241 detenuti in centri offshore (380 nella Repubblica di Nauru e 861 sull’isola di Manus, in Papua Nuova Guinea). Quest’ultima è la più controversa tra le tipologie detentive: reintrodotta nell’agosto 2012 all’interno dell’operazione Sovereign Bordersi, consiste in accordi bilaterali che “appaltano” a paesi terzi la detenzione dei richiedenti asilo giunti illegalmente via mare. Due dei dati più significativi riguardano la durata media della permanenza nei centri detentivi che attualmente è di circa 500 giorni, ma in costante crescita; il numero di minori, la maggioranza dei quali vivono nelle community detention, con un picco di 1.992 nel luglio 2013, è sceso fino agli attuali 235. I centri offshore sono stati al centro di numerose inchieste, operate sia da commissioni governative che da ONG e organizzazioni internazionali. Da sottolineare i casi di violenza e di autolesionismo emersi dai c.d. “Nauru Files”, informazioni confidenziali trapelate dall’omonimo centro detentivo, complessivamente quantificabili in 335 episodi verificatisi nel triennio 2013-2015. Vi sono infine 30.787 (dato aggiornato al 30 giugno 2016) richiedenti asilo, arrivati sul territorio australiano prima del 31 dicembre 2013, il cui status è ancora in fase di revisione.

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