Tentennano un po’ i profughi, guardando il bagaglio di pelle che campeggia sul tavolo della sala comune della Social House di Neos Kosmos, aperto, con le cinghie sciolte e l’interno color sabbia. Qualcuno sorride, altri corrucciano la fronte tra un tchai iperzuccherato e foglie di vite inzeppate di riso. Loro, prima di partire per un lungo viaggio, la voglia di non tornare più non hanno potuto certo metterla in valigia. Forse perché prima che la guerra funestasse i loro paesi non avevano mai pensato di lasciare la propria terra o forse perché lo spazio nel bagaglio era troppo poco per farci entrare una vita, lacrime, effetti, emozioni.
Qualcuno sale nella propria stanza. Inizia una piccola processione, dirimpetto alla valigia, simbolo sfacciato di un’andata senza ritorno, di un viaggio ancora tutto da pensare. Il bagaglio inizia a riempirsi, piano piano, ognuno inizia a depositare un pezzo di quella Siria o di quell’Iraq che ha lasciato tra bombe, polvere e macerie. Piccoli orologi, profumi, ricordi dei genitori che non ci sono più. È un carosello dove ognuno ripercorre la propria storia, un’autobiografia srotolata innanzi a quella bizzarra collezione che mai, altrimenti, avrebbe avuto ragion d’essere. Qualcuno arrossisce perdendosi nei ricordi, altri si prendono un po’ in giro. Scoppiano grasse risate. Si scopre che fare la valigia è uno strumento per conoscere sé stessi, un meccanismo per guardare a quelle parti di noi a cui no, non possiamo rinunciare.
Siamo tutti in semicerchio, in devoto rispetto innanzi al nostro bagaglio marrone. Qualcuno sfoglia la Bibbia che qualcun’altro ha riposto, è la prima volta che ne vede una. Ne assapora gli spazi, prova a leggerne qualche pagina. C’è uno sguardo curioso ma scevro di giudizio. “Io ho perso la mia valigia in mare – racconta Mohammed, venti anni, appena diventato papà – la barca era troppo piena e io ho perso tutto”. Tutti tacciono.
Qualcuno deposita un accendino nero, regalo della mamma, con incisi i segni delle combattenti kurde. Nuha, curdo-siriana, mamma di tre bambini biondissimi, non fuma ma custodisce l’accendino in un cassetto della sua stanza, come a ricordare che sua mamma è sempre lì, pur lontana chilometri. Dawood, originario di Aleppo, ha 13 anni e due occhi profondi color del mare. Il suo, forse, è uno degli oggetti che pesa di più. È un piccolo orologio di plastica nero, regalo della mamma prima che se ne andasse in Cielo. Il suo papà è rimasto in Siria, con i fratelli più piccoli, mentre lui cerca di raggiungere da solo la zia rifugiata in Germania. “Io ho portato con me tre oggetti – racconta Sama, 20 anni, siriana dagli occhi nocciola – una ciocca di capelli della mia bambina quando era appena nata, la fascia per capelli che ho fatto per lei mentre ero incinta e la sua prima ecografia, legata a un nastro rosso e argento che si usa nelle cerimonie di fidanzamento”.
“Io ho preso con me la mia Bibbia – ci confessa Elyas, 24 anni – la considero come un tesoro, credo mi abbia protetto durante il mio Viaggio. Quando ho lasciato Damasco, a nord mi sono imbattuto nel Fronte Islamico emanazione di al-Qaeda: Jabat al-Nusra. Avevo paura di cosa mi avrebbero fatto, controllavano le valigie di ognuno e la Bibbia era dentro. Credo mi abbia protetto. Quel giorno hanno controllato tutte le valigie, ma hanno dimenticato di controllare la mia. Quasi ogni pagina è costellata di ricordi: ci sono le preghiere che recitavo durante il Viaggio per chiedere protezione, foglie di olivo benedetto, i canti della mia Siria e foglie di alloro del mio paese”.
Suham e suo marito sono una giovane coppia siriana, 27 anni lui e 24 lei. Sono stati derubati a Idomeni – raccontano – avevano lasciato la valigia nella loro tenda e un giorno non l’hanno più trovata. C’era dentro tutto il loro mondo, insieme alle medicine per il loro bambino di un anno, malato di asma. Suham ride: “La prima cosa che ho messo in valigia è stato mio figlio Jakob”.
C’è anche Jumana che irrompe nella sala, occhi sottili e carnagione candida. Stringe al petto la lettera che le ha scritto il marito quando ancora non erano fidanzati, la foto di lui da giovane e la foto di lei, ritratta come una bambola, da bambina. Sono queste le prime cose che ha pensato di portare via quando ha capito che avrebbe abbandonato la Siria. Le altre donne la prendono in giro nei loro hijab coloratissimi, chiedono dettagli su quella lettera incorniciata da cuori, ridono, si stringono come bambine.
I giocattoli dei bambini sono i grandi assenti in questo racconto fatto di valigie, sogni e ricordi. Solo Omar, un bimbo tutto lentiggini, ha portato il suo diario, dove finge di annotare le sue giornate in una lingua che non ha mai potuto imparare a scrivere perché la guerra non gli ha mai permesso di andare a scuola. Asma, mamma di dodici figli, si affaccia timidamente da dietro la porta. Reca in mano il bakhoor, un unguento profumato, custodito in un sacchetto di naylon, regalo della mamma rimasta a morire ad Aleppo. La valigia prende immediatamente il profumo dell’essenza, come a fondere in un unicum tutti gli oggetti, come a dire che c’è qualcosa che tiene insieme tutte quelle storie.
Chiudiamo la valigia, ci dirigiamo verso il mare insieme a quelle reliquie e a quegli oggetti preziosi quasi a far respirare loro che dopo la traversata sono finalmente salvi. “Tieni tu per un po’ la mia Bibbia”. Ho quasi timore, sento di avere in mano un grande tesoro. Qualcuno mi porge dei soldi siriani. Scende una lacrima. “Li ho portati con me, spero di poterli usare di nuovo”.
L’articolo fa riferimento alla mostra allestita ad Atene, presso la struttura Caritas “Neos Kosmos”, che accoglie alcune famiglie profughe arrivate in Grecia in questi mesi. Questa mostra, che ha come tema “La valigia”, è il risultato di un’attività svolta con gli ospiti del centro. E’ stato chiesto loro di ripercorrere il proprio viaggio e disegnare, sulla foto di una valigia l’oggetto che hanno portato con sé o che avrebbero voluto portarsi quando hanno lasciato la propria casa.
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