CB Apg23

Albania Caschi Bianchi

Morta e non compianta

L’interminabile attesa di una notizia che già sa. E’ in quel momento che D. è morta. Quando tutta la sua famiglia le è sfuggita di mano. Quando è rimasta sola, impaurita, vittima della sua stessa cultura“. D. è una delle tante persone che, nell’Albania del 2016, subisce il fenomeno delle vendette di sangue, con tutte le conseguenze psicologiche, sociali e culturali che esso comporta: Angela ci racconta la sua storia, la storia di una donna che da una vita felice, circondata da affetto, famigliari e semplicità, si ritrova in poco tempo sola, impaurita, vittima.

Scritto da Angela, Casco Bianco Apg23 a Scutari

Morta e non compianta”. E’ così che l’ha definita Age.

Morta e non compianta è un modo di dire albanese che si riferisce a chi subisce eventi gravi che provocano grande dolore, ma non ha nessuno accanto, un supporto o un aiuto. Non trovo parole migliori per esprimerne il concetto.

D. ha circa 60 anni. Una vita piena. Una famiglia, un marito, tre figli, una nuora e una nipotina. Era un’infermiera di classica educazione comunista. Non in senso ideologico, piuttosto materiale. L’organizzazione sociale comunista che provvede ai bisogni primari e fornisce un’educazione scolastica diffusa. Forse non era una donna libera, ma certamente consapevole. Consapevole del suo ruolo sociale in qualità di donna e quindi madre e moglie. Consapevole di una vita dura, durante la quale nessuno regala niente e bisogna rimboccarsi le maniche. Consapevole della sua dignità di essere umano, di donna che non chiede, non elemosina, ma fa, crea, produce.
La immagino da giovane, con il futuro tracciato nei suoi splendidi occhi azzurri. Quegli occhi che ormai non vedono più niente. D. è quasi cieca, quasi a simboleggiare l’assenza di futuro dopo una vita di stenti e fatiche.

Ho imparato a soffrire” – dice, rimanendo in piedi sul pianerottolo affollato di un ospedale albanese, dietro la porta chiusa di una sala operatoria dove uno dei suoi figli sta subendo un intervento. Non ha futuro D. Gliel’hanno portato via un anno dopo la nascita della sua prima nipotina. Non ha futuro, nonostante abbia davanti agli occhi il futuro del mondo.

Un tranquillo giorno d’estate, a causa di un banale litigio, i suoi figli uccidono a colpi d’arma da fuoco tre uomini di una famiglia del villaggio in cui vivono. Subito dopo il litigio, miccia dell’esplosivo massacro, il padre contrario alla dinamica di vendetta, corre ad avvisare l’altra famiglia per proteggerla e metterla in salvo. Ha visto la rabbia e l’ira negli occhi dei suoi figli e ha intuito che con una pistola in mano avrebbero fatto una strage. Il risultato del suo gesto coraggioso è stato uno scontro a fuoco, in cui anche uno dei suoi figli è rimasto ferito. L’altra famiglia, infatti, invece di mettersi in salvo ha risposto armandosi e rispondendo col fuoco al fuoco nemico. Dopo l’episodio, padre-coraggio, insieme a uno dei suoi figli, si consegna alla polizia assumendosi le colpe del sangue del suo sangue. Il risultato finale è che finiscono tutti in carcere, padre compreso.

Immagino D. in quel tranquillo giorno d’estate. Immagino si sia svegliata presto, come ogni giorno, abbia svolto i suoi lavori domestici, regalato sorrisi a sua nipote e preparato il pranzo per tutta la famiglia. La immagino affaticata dal peso della dura vita di donna in Albania, ma felice di fronte ai versi incomprensibili di una bambina innocente. Immagino lo smarrimento nel suo sguardo all’arrivo del figlio incazzato, ferito nell’orgoglio arrogante da una parola di troppo o un insulto fuori luogo. Immagino le lacrime di una madre di fronte a un figlio irragionevole e la disperazione di chi sa che il mondo le sia caduto addosso. Immagino il senso di impotenza di fronte all’urgenza di ottenere vendetta/giustizia attraverso l’ingiustizia. La immagino immobile di fronte alla fretta dei suoi figli che insieme escono armati per difendere il loro “onore”, l’onore della famiglia.
E poi il vuoto. L’interminabile attesa di una notizia che già sa. E’ in quel momento che D. è morta. Quando tutta la sua famiglia le è sfuggita di mano. Quando è rimasta sola, impaurita, vittima della sua stessa cultura, che lei stessa disapprova. Quando la sua tranquilla vita di fatiche si è trasformata in tragedia. In quel momento nella sua vita la tradizione della vendetta ha preso il sopravvento sulla sua lucidità, portandola alla paura. D. era terrorizzata quando l’abbiamo conosciuta qualche mese fa. Aveva paura di tornare a casa, nella sua umile dimora: una capanna in paglia suddivisa in due minuscole stanze. La stessa casa in cui aveva costruito un tranquillo focolare domestico. Le voci di paese fomentavano le sue paure. Non ha mai ricevuto minacce, ma era vittima della mentalità albanese che rievoca l’antica tradizione delle “vendette di sangue”. Per qualche mese D., sua nuora e sua nipote si sono rifugiate da alcuni parenti, abbandonando la loro casa e la loro vita, per pagare le conseguenze di colpe non loro.

Se io commetto uno sbaglio non è colpa di mio figlio o di mia madre” – ci dice Age, parente acquisita di D. che sembra provenire dall’Albania del futuro. E non è colpa di D. se i suoi figli si sono lasciati accecare dall’ira dettata dall’orgoglio ferito. Ma come può una madre non sentirsi responsabile degli errori dei propri figli? In Albania come in qualsiasi posto del mondo. Penso a mia madre, ai suoi sensi di colpa di fronte ai miei errori, errori banali di una vita tranquilla. D. deve subire e sopportare il peso degli errori di tutti i suoi figli, tutti ugualmente responsabili della morte di tre uomini, uccisi dalle mani in cui scorre il suo sangue.
Ricordo il primo incontro con lei, la dignità delle sue parole: “Io voglio ricominciare a lavorare, perché non voglio pesare su nessuno”.

E’ tornata a casa sua D. Adesso vive lì, da sola. In un luogo dove ogni giorno è costretta a guarda in faccia la sua solitudine, conviverci e diventarle amica. Non ha trovato lavoro, perché troppo vecchia e quasi cieca. Coltiva l’orto e cura la casa. Sua nuora è tornata dalla sua famiglia di origine, una famiglia tradizionale che non le permette di lavorare perché “le donne devono stare in casa”. Sua nuora se n’è andata, portandole via l’ultima briciola di speranza custodita negli occhi di sua nipote.
La immagino svegliarsi la mattina presto dopo una notte insonne, tormentata da incubi. Immagino D. svolgere i lavori domestici e coltivare l’orto. La immagino accingersi a preparare il pranzo e bloccarsi per un attimo: oggi non preparerà il pranzo per tutti, oggi non regalerà sorrisi a sua nipote.

Oggi D. è davvero sola. Morta e non compianta.

Nota

Dal 2010 Operazione Colomba è presente a Scutari, in Albania, per sostenere la missione della Comunità Papa Giovanni XXIII nel lavoro che, dal 2004, svolge sul dramma delle “vendette di sangue”.

Il Kanun è un Codice Civile risalente al Medioevo e trasmesso oralmente per secoli in Albania.
Regola la vita sociale, familiare e individuale di piccoli villaggi.
Oggi, nel nord dell’Albania, sopravvive una parte di questo Codice (in forma degenerata) che sancisce che l’onore perduto (a causa di una lite o per l’uccisione di un parente) deve essere pagato con il sangue, dunque con un altro omicidio.
Si apre così una faida senza fine che coinvolge intere famiglie ma soprattutto bambini e ragazzi costretti a portare avanti la vendetta o a stare segregati in casa per paura di essere vittime di vendetta.

I volontari di Operazione Colomba, insieme ai membri della Comunità Papa Giovanni XXIII e ai volontari in Servizio Civile (Caschi Bianchi) presso di essa, condividono la vita con le famiglie recluse e le sostengono nell’assistenza medica e scolastica.
L’obiettivo principale è quello di arrivare a percorsi di riconciliazione fra queste famiglie.
Un altro obiettivo, su più ampia scala, è quello di sensibilizzare tutta l’opinione pubblica albanese su questo dramma, con la speranza che si inneschino così meccanismi virtuosi che portino ad una più ampia riconciliazione nazionale.

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