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Caschi Bianchi Haiti

Lettera da Haiti

Contraddizioni da Haiti, Martina e Davide ci descrivono il luogo in cui stanno svolgendo Servizio Civile con Apg23, e ci spingono ad interrogarci sulle responsabilità di ognuno, suggerendo che demoralizzarsi non serve a niente.

Scritto da Martina Chiesa e Davide Crema, Caschi Bianchi Apg23 ad Haiti

Siamo Martina e Davide e stiamo vivendo la nostra esperienza di Servizio Civile ad Haiti come Caschi Bianchi, insieme ad Andrea Volon (il responsabile dell’Ente), con l’obbiettivo di promuovere la pace, condividendo con e per i più poveri, cercando di contribuire nel nostro piccolo alla rimozione delle cause di conflitti e povertà.

Abbiamo scelto questa meta poiché entrambi ci siamo interrogati sui motivi per cui questo pezzettino di Mondo nel cuore dei Caraibi, possa essere tra i più poveri e disastrati a livello globale.
Prima di sbarcare nella “Perla dei Caraibi”, così viene soprannominata, ci aspettavamo di vedere soprattutto ciò che è nell’immaginario comune: candide spiagge adornate da palme e pescatori, distese piantagioni di mango, caffè e canna da zucchero, piccole realtà rurali di contadini e floride montagne.
Ayiti, “paese delle montagne”, è anche così, ma non solo. Ayiti sarebbe una meravigliosa creazione, dove poter vivere in pace, auto sostenendosi, grazie agli abbondanti doni di Madre Natura. Avrebbe le potenzialità per essere un angolo di paradiso, ma non lo è. Qualcosa è andato storto, cosa?

Il disastrosa terremoto che, nel 2010, ha provocato più di 230.000 vittime è solo una delle tante disgrazie e ingiustizie che hanno reso questo popolo povero ed oppresso. Noi siamo qua per capire il perché, osservando le conseguenze e cercando di capire. La nostra grande sfida è conoscere e, soprattutto, capire come aiutare. Per fare ciò è necessario conoscere la storia, le radici degli haitiani.

Prima del fatidico arrivo di Cristoforo Colombo l’isola era abitata da indigeni, i Guacanaric, i quali vivevano in sintonia tra di loro e con la terra. Dal 1492 i colonizzatori, spagnoli e francesi, dopo aver sterminato gli autoctoni, pensarono di arricchirsi sfruttando il più possibile le risorse naturali con la manodopera di schiavi, provenienti da diverse parti dell’ Africa. Dopo secoli di brutale schiavismo, nel 1804 nacque Haiti, la prima colonia “nera” che riuscì a ribellarsi ed ottenere l’indipendenza.
Nonostante ciò questo Stato rimane tutt’ora vittima di povertà, in quanto oppresso dalle potenze estere e dipendente dai numerosi aiuti umanitari internazionali giunti dopo le catastrofi naturali degli ultimi anni.

A distanza di 6 anni dal terremoto – che provocò 230.000 morti ed ingenti danni strutturali – questo Paese non si è ancora rialzato: l’ economia è praticamente inesistente, il governo instabile, la qualità dell’istruzione e della sanità sono pessime e l’assistenza sociale inesistente. Perchè?
Le cause sono molte e la responsabilità di tutti. Haiti è secolarmente vittima dell’egoismo più atroce, della povertà, dell’ignoranza, della grande difficoltà di evolversi diversamente.

Sta di fatto che qui regna il disordine e manca collaborazione tra il governo, le ONG e coloro che dovrebbero essere i protagonisti, gli haitiani. Questo perché diffuso è il senso di de-responsabilizzazione, il quale paralizza qualsiasi tentativo di miglioramento. Ci chiediamo dunque cosa possiamo fare noi qui, in questo breve periodo, e soprattutto una volta tornati a casa.
Ogni tanto ci sentiamo piccoli, inutili ma sappiamo anche che “un battito di farfalla può causare un uragano dall’altra parte del mondo!”. Questa visione positivistica ci suggerisce che bisogna innanzitutto riscoprire le proprie responsabilità, anche quelle più intime, e che dovremmo prenderci cura di tutti i nostri fratelli e di questa casa chiamata Mondo.

Ci è stato donato un paradiso terreste, con spiagge bianche, fiori ed orizzonti caraibici. Noi abbiamo creato tanta povertà e distruzione, come è ben visibile ad Haiti. Ma pensiamo che non serva demoralizzarsi, poiché “la bellezza salverà il mondo”, ed Haiti è bellissima!

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