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Bolivia Caschi Bianchi

Verso una giustizia restaurativa

Dopo il Brasile, riceviamo anche dalla Bolivia aggiornamenti sulle condizioni delle carceri e sulla giustizia restaurativa. Tommaso svolge il suo servizio civile come Casco Bianco a La Paz, con Apg23, e ci racconta la conferenza a cui ha partecipato “Problemi nella giustizia: conseguenze nel sistema penitenziario”

Scritto da Tommaso Sartori, Casco Bianco Apg23 a La Paz

Ogni anno l’Italia riceve multe dall’Unione Europea per la lentezza dei processi e per le condizioni delle carceri sovraffollate che sono scenario di costanti violazioni dei diritti umani. Ma la giustizia e il sistema penale non sono problematiche soltanto a “casa nostra”.

Durante la mia esperienza in Bolivia frequento anche il carcere di San Pedro di La Paz e questo mi permette di conoscere un altro sistema pieno di falle, contraddizioni e problemi. Nonostante ciò, sono qui almeno evidenti la volontà e i tentativi di realizzare un cambiamento. Questo si può riscontrare, per esempio, attraverso l’emanazione da parte del governo boliviano del “Codigo niño/niña y adolescente”, una legge che, quantomeno per i minori, cerca di realizzare una giustizia restaurativa e non solo punitiva.

Questa tematica è stata al centro di un’interessante conferenza tenutasi al “Colegio de Abogados” di La Paz, alla quale hanno partecipato come ospiti l’Ambasciatore italiano in Bolivia Placido Vigo, il direttore generale del Regime Penitenziario Arenas, la vicepresidente di MLAL Ivana Borsotro e due illustri professori italiani, Adolfo Ceretti e Gherardo Colombo. Il titolo della conferenza era “Problemi nella giustizia: conseguenze nel sistema penitenziario”.

L’incontro è iniziato con un breve intervento da parte dell’Ambasciatore che ha sottolineato come la presenza italiana in Bolivia sia ormai costante da più di 30 anni attraverso Istituzioni e ONG, e come il governo italiano abbia investito in diversi progetti relativi alle realtà carcerarie, tra questi il “Progetto Qalauma”, con oltre 1 milione di euro. Questo progetto si svolge all’interno di un centro detentivo giovanile nella citta’ di El Alto e si pone l’obiettivo di reinserire i rei nella società attraverso un processo di giustizia restaurativa. Facendo sí che i rei possano apprendere un mestiere o studiare e soprattutto cercare di soluzionare le relazioni con le vittime.

Successivamente è intervenuto il Presidente del Regime Penitenziario Arenas sostenendo che le carceri boliviane stiano pagando i problemi ben più ampi e ormai strutturali del sistema giudiziario e che quindi siano ora necessarie grandi riforme. Tra queste, la necessità di creare centri di detenzione preventiva per le persone non ancora sentenziate, attualmente nelle carceri boliviane il 70% dei detenuti è ancora in attesa di giudizio. La lentezza dei processi è un altro problema serio anche in Bolivia poiché, nonostante sia stato stabilito un termine di 3 anni come tempo ragionevole per la conclusione di un processo, difficilmente si realizza in queste tempistiche, a meno che non vi sia “plata”, denaro, come afferma lo stesso Arenas. Solo chi ha soldi infatti riesce ad arrivare velocemente ai tribunali, ottenere giustizia o perlomeno uscire dal carcere. Secondo il Presidente la questione è strettamente legata al problema della corruzione: sfortunatamente durante la conferenza non c’è stato il tempo, o forse la volontà, di affrontare il tema.

Tra gli interventi spicca quello del Professor Ceretti, che ha iniziato il suo discorso partendo da un tema più ampio e che può sembrare meno concreto: la paura. Egli ha sottolineato come le “passioni” popolari negli ultimi anni abbiano influenzato eccessivamente la sfera politica e come la legislazione in campo penale risenta quindi dell’opinione pubblica. Dopo aver citato Hobbes, Beccaria e Weber, Ceretti ha concluso evidenziando una perdita generale di fiducia nelle istituzioni, le stesse che avrebbero il compito di controllare la violenza e garantire sicurezza e giustizia attraverso un ordine condiviso. La legislazione boliviana punisce maggiormente i reati che fanno “scalpore” e creano allarme sociale attraverso politiche penali che controllano una parte della popolazione, i così detti “pericolosi”. Queste persone vengono infatti viste come cittadini di seconda categoria, che rinunciano con le loro colpe allo status di cittadini e si pongono automaticamente all’esterno della società civile. Viene così a realizzarsi un processo in cui la cittadinanza non ha più un valore inclusivo bensì esclusivo. Queste politiche hanno anche portato ad una crisi del welfare penale, ad un disinvestimento sulla funzione rieducativa del carcere ed alla neutralizzazione della pericolosità di un detenuto solo ed esclusivamente attraverso una punizione.
Il Professore allo stesso tempo sfata, senza troppa difficoltà, il mito che la punizione abbia un’effettiva utilità per quanto riguarda il sistema penale. In Italia infatti il 70% dei condannati e dei carcerati sono recidivi, mentre per chi viene sottoposto a misure alternative la percentuale è decisamente più bassa. Il subire semplicemente la pena non permette di elaborare la colpa e comprenderne la responsabilità: vi è la necessità quindi di promuovere una “giustizia orizzontale” in cui rei e vittime rielaborano insieme cause e conseguenze del delitto, per capirne le proprie responsabilità.

Anche secondo il professor Colombo, l’orizzontalità ha un valore fondamentale. La punizione infatti fa forse sentire più sicuri, ma non funziona: è una falla della democrazia che induce solo ad obbedienza e sudditanza, oltre a privare la persona di diritti fondamentali che comunque non confliggono con la sicurezza dei cittadini. Si é quindi arrivati alla conclusione che vi sia la necessità che il reo comprenda fortemente la violazione della dignità della vittima per poi non violarla successivamente: questa è la funzione della giustizia riparativa/restaurativa.

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