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Argentina Caschi Bianchi

Buenos Aires pulsa

Può una città darti la sensazione di immenso, indefinito, inafferrabile?

Scritto da Riccardo Moi, Casco Bianco Amici dei Popoli – FOCSIV a Buenos Aires

Un angolo che non avevi mai visto prima si trasforma in un dettaglio interessante, il rinnovamento va di pari passo al decadimento per cui è un costante equilibrio di apollineo e dionisiaco che fa l’anima instabile di questa città.

I palazzi di venti piani costeggiano aree urbane apparentemente disabitate, facciate umide e prive di finestre si susseguono a villini in perfetto ordine British.
Qualsiasi angolo di strada è un caffè antico e descrive bene l’argentino che non perde occasione di una pausa distratta dal lavoro, più di un’ora di viaggio nel bus cittadino e sei appena dall’altra parte della città. E ti capita di addormentarti e svegliarti e accorgerti di essere alla periferia di una villa miseria di lamiere, mattoni e fili di lampadine che svolazzano al vento e a mala pena illuminano stretti bugigattoli pieni di fango e pozzanghere dove saltano cani e bambini.
La speranza corre nel tragitto di un bus e sembra dar ragione all’insolvibile ingiustizia dell’umanità… ricchi e poveri divisi solo da poca distanza a volte solo alcuni metri. Uno spazio fisico tanto irrisorio da creare abissi e vuoti sociali e mondi diversi che mai potranno incontrarsi.
Una città invisibile sospesa in tumulto. A volte nel 2014 a volte nel 1970 o persino nel 1950. Per molti la vita sembra ferma all’epoca d’oro dell’Argentina dei primi Novecento e incontri chi gestisce il proprio esercizio commerciale come se il tempo non fosse mai passato… a parte l’onnipresente tv lcd che tradisce la presenza del XXI secolo posta affianco a un altarino dove la foto seppia di Carlos Gardel è unita alla Vergine di Lujan da un rosario.
Superfici impolverate riflettono i pindarici giochi di luce di un tramonto senza fine e anch’esso risponde delle stridenti note di nostalgie di una città che si appresta ad accogliere la notte con luci frenetiche e disagio.
Alienati e feriti zombie umani vagano tra i rifiuti masticando tabacco, prostitute ancheggiano alla luce di un lampione a fianco a bambini sporchi, senza padre, senza madre che giocano a chiedere l’elemosina ad affrettati e incuranti passanti. Emaciati, consunti e folli accatastano cartoni su cartoni, e accumulano materassi, teli, plastica, immondizia su cui riversano ossa, pelle e ubriachezza per arrivare alla luna e parlare alla propria solitudine.
Tanti bambini, tanti piccoli a cui è stato negato il cielo se non fosse quello riflesso nelle pozzanghere; la loro casa un angolo di marciapiede, una stazione, una squallida periferia. Soli e dall’infanzia assassinata vagano inermi spesso con la unica compagnia di un randagio mentre madri e padri raminghi bevono l’ultimo peso conquistato.
Ho visto indecenza, mancanza di pudore, abbandono; ho visto bambini provati dalla stanchezza, disturbati e confusi.

Il cuore di Buenos Aires pulsa anche della moltitudine di vite periferiche che si attardano ad ingrossare le file scintillanti della sua assoluta apparenza.
Vite all’angolo ma di fronte a te; vite nascoste ma a fianco a te; vite silenziose ma che fanno rumore; vite deboli ma che sopravvivono; vite abbandonate ma che non chiedono aiuto.

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