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Bolivia Caschi Bianchi

Su quella scala ripida che nasconde fantasmi

Scale ripide e muri cadenti che nella parte alta di La Paz nascondono quei “fantasmi” dimenticati dalla città.

Scritto da Sofia Cappelletto, Casco Bianco Apg23 a La Paz

Durante il servizio “Fraternidad” ho avuto modo di conoscere una realtà nascosta della città, un volto silenzioso, che non parla, che è dimenticato e quasi non si sente in diritto di essere venuto in questa Terra. Partendo con la camionetta vedi le casette di mattoni rossi e arancioni che costellano il paesaggio, si arrampicano coraggiose sopra le pareti più ripide che stanno a margine tra La Paz e la città di El Alto. Tutto appare molto abbozzato, case che sembrano in costruzione da anni, oppure con una immediata necessità di riparazione ma che in realtà sono abitate. E ti stupisci e ti chiedi come possano delle persone viverci dentro, metti in discussione il tuo margine personale di “dignità” di “possibile”. Cerchi comunque di sospendere il giudizio e di chiamare quello che appare un’accozzaglia di mattoni “casa”.

Per gli abitanti della parte più alta di La Paz questa è la propria abitazione, e come tale è giusto rispettarla e dargli il valore, ma allo stesso tempo non puoi vedere fiori e magia dove proprio non ci sono. Le condizioni in cui vive questa parte di popolazione è tremenda, entrate piccolissime, tetti che non coprono tutta la struttura, rifiuti accumulati nelle terrazze, scale ripidissime e assolutamente instabili. Gran parte delle zone ti danno l’impressione che da un momento all’altro possano crollare e fare grandi disastri. Spesso alcune parti, come le strade più povere, non sono registrate e le case che ci si affacciano sono costruite in modo anche più precario delle altre, e per questo, quando succede che nel periodo delle piogge tutto crolla, queste spariscono, inghiottite da un terreno friabile fatto di terra instabile. E nessuno denuncia, nessuno vuole vedere. Qui vivono i fantasmi, persone che in fondo per la vita della città e del paese nulla contano.
Tra queste mura anguste vivono anche tante persone disabili che per la città dinamica, movimentata e veloce non esistono. Loro, ancora più che gli altri, da qui proprio non si possono muovere, e sono come in una gabbia dalla quale non possono uscire mai se non con qualcuno che di peso li tiri fuori. 

Le possibilità pratiche per i disabili di uscire sono praticamente nulle e la volontà delle istituzioni, se possibile, lo è ancora meno. Non esiste un’assistenza, un luogo di incontro, una possibilità ricreativa. Nulla. Passano la giornata in casa, spesso soli, in condizioni di salute precaria, dentro mura umide, ambienti insalubri che giorno dopo giorno possono solo peggiorare la loro situazione.
Salendo nelle loro case, ho trovato difficoltà nel fare le scale, nel respirare l’aria, nel passare le porticine piccole. Ho immaginato come potrebbe mai muoversi una persona con degli svantaggi fisici anche piccoli. È qui il muro si alza e la barriera si fa grande, quando basterebbe poco per almeno attenuarlo, per dare un minimo di normalità e indipendenza a queste persone.
Spesso mi chiedo se capitasse a me, se ci fossi io in quella stanza, se fossi io a non potermi muovere per intere settimane, aspettando qualcuno che mi sollevi e mi porti con sé.

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