Caschi Bianchi Cile

Una casa chiamata ‘esperanza’

Un cancello sempre aperto e una piccola scritta su un quadrato di legno: comincia qui la speranza di un domani migliore.

Scritto da Silvia de Munari, Casco Bianco Apg23 a Santiago del Cile

Ci arrivi solo con questo tipico collectivo, perchè lassù, dove hanno inizio queste meravigliose Ande, il Transantiago non prevede un passaggio.

Sono oramai tre mesi che mi trovo qui, Santiago del Cile, a vivere quel sogno che da tempo si smuoveva dentro me, di un’esperienza all’estero a contatto con ‘altre’ povertà.

I tre cani della casa, che qui hanno trovato una vita diversa dalla calle, sono i primi ad accoglierti, venendoti incontro a tutta velocità e accompagnandoti tra il viale alberato fatto di palta, naranja, limon y mucho mas fino alla porta di casa.

Non devi suonare un campanello, non c’è un citofono a cui parlare, non devi chiedere il permesso ad entrare: il cancello che delimita il ‘dentro/fuori’ è sempre aperto, non ha una chiave né tantomeno un lucchetto, che qui, a causa dell’alto tasso di delinquenza, c’è in ogni portina, porta, portone o finestra!

La scritta “Casa Acogida Esperanza – Comunidad Papa Juan xxiii“  scolpita in un quadrato di legno ha dato il via, dalla prima volta che son giunta lì, a tante domande, a tanti pensieri che si son trasformati nel sentire quello stato d’animo di chi è fiducioso nel futuro, nonostante non possa sapere l’esatta possibilità di riuscita del suo ‘progetto’.

E chi sono i ragazzi che quando arrivi li ti offrono forti abbracci, o un semplice hola, o ti regalano ‘solo’ uno sguardo, sapendo che quegli occhi valgono più di mille parole?

Sono giovani vittime di serie violazioni dei loro diritti che vengono segnalati direttamente dal Tribunale Familiare Cileno. Questa è la risposta reale e burocratica che si da quando ti viene chiesto il “perchè sono li?”. Storie difficili, passati duri da metabolizzare, ma c’è questa Esperanza che il domani possa essere un giorno migliore. E la vera vittoria sarà proprio questa!

Sono 12 i ragazzi che attualmente fanno parte del progetto di accoglienza: 7 vivono nella Casa Acogida Esperanza della Comunità Papa Giovanni XXIII mentre gli altri 5 hanno iniziato il percorso di reinserimento nelle famiglie naturali, della durata di circa 2 anni.
Sono giovani che spesso vengono ‘spostati’ qui dopo essere stati in vari altri centri. Ed in questa casa (e non in questo ‘centro’) viene data loro la possibilità di reimparare a relazionarsi con gli altri e vivere la quotidianità di una famiglia: dal sistemarsi il letto, al pulire la sala da pranzo, curare il giardino fuori, dar da mangiare al cane e avere cura di sé e del luogo dove vivi.
Insegnare loro il tenere in ordine le cose, comunicare con i ragazzi e adulti usando un linguaggio che non sia solo quello appreso vivendo nella strada tra droga e delinquenza. Imparare ad essere solidali con i tuoi ‘fratelli’ con cui condividi la casa, allungare la mano per aiutarlo al posto di deriderlo.
Purtroppo ci sono ragazzi che decidono di interrompere bruscamente il progetto, quasi sempre nei primi giorni di arrivo alla casa.
Un’esperienza forte quella vissuta con loro, tosta, che ti sbatte in faccia la domanda: “ma tu perchè sei qui?”
E io… perchè sono stata li? Per condividere con loro? Per conoscere questo progetto della comunità? Per vedere nuove realtà? O per capire meglio me stessa?
Non c’è una risposta definitiva, ma un continuo scoprirsi e scoprire.
È dei loro occhi che mi sono alimentata in questi mesi, pieni di gioia, a volte di rabbia, a volte di tristezza ma con una sensazione continua che non si è mai dissolta: la esperanza de un mañana mejor.

Gracias chiquillos

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