• Crescenzo Rubinetti, Caritas Italiana

Caschi Bianchi Guatemala

Por una Guatemala en paz

“Por una Guatemala en paz”, è così che i giornalisti della maggior catena televisiva guatemalteca chiudono i loro servizi, ma quando veramente ci sarà pace per questo popolo?

Scritto da Crescenzo Rubinetti, Casco Bianco Caritas Italiana a Zaculeu

“Quel” 21 dicembre 2012, quando il popolo maya celebrava il suo Oxalajuj Baktun, io ero là in Guatemala a Zaculeu, capitale del popolo Maya-Mam.

Non è stata la fine del mondo, come si temeva! L’ Oxlajuj Baktun hasegnato la fine della quarta era all’interno della cosmovisione Maya, il passaggio dall’età del mais (in cui abbiamo vissuto per più di 5125 anni) a una nuova epoca in cui un uomo nuovo, più spirituale, un uomo più vicino alle esigenze umane e in armonia con la natura, nascerà. Questa giornata non è stata, infatti, una opportunità  turistica, ma una data fondamentale per un popolo che vive immerso nella sua spiritualità (su 14 milioni di abitanti, circa il 70% è di etnia Maya) per un popolo che, nonostante la conversione al cristianesimo, è fiero delle sue origini e in esse si riconosce.

“Quel” 7 novembre 2012, quando la terra ha tremato con una intensità superiore al 7° grado della scala Richeter, io ero là in Guatemala, a San Marcos.

Il terremoto ha permesso di scattare la migliore foto sociale di questo paese perché ne hamesso a nudo le  debolezze strutturali. Ha colpito le famiglie che vivono all’interno di case di fango e legno, ha danneggiato le comunità rurali condannandole all’isolamento per giorni, ha punito quei padri di famiglia che già in situazioni normali devono affrontare mille difficoltà per mettere un piatto a tavola… ha punito sempre e comunque gli Ultimi.

E’ una costante in questo paese! L’immagine più forte del terremoto è quella di una nonna e della sua nipotina di solo pochi anni, ritrovate abbracciate l’una all’altra sotto le macerie dell’umile casa in cui vivevano. La morte le ha portate via in una soleggiata mattinata di novembre, le ha sottratte da una vita di stenti, di difficoltà, di ristrettezze, ma anche da una vita che avrebbero sicuramente affrontato con forza, con determinazione, con voglia di migliorare la loro condizione. Stessa sorte è toccata a altre 48 persone, che hanno visto la loro vita terminale, brutalmente, in quella soleggiata mattinata. Catastrofi naturali o normale quotidianità, gli Ultimi in questo paese sono costretti a pagare per colpe che non hanno, costretti a sopravvivere fra mille difficoltà, costretti a riconoscere la morte come una costante della loro vita. Il terremoto altro non ha fatto che accentuare, con un certo sadismo, la diseguaglianza della società guatemalteca.

Può essere definita solo con la parola “diseguaglianza” la non inclusione delle popolazioni indigene, il non riconoscimento dei loro diritti o la continua disattesa delle loro petizioni e dei loro bisogni. È diseguaglianza vivere in un paese ricco dove, stando al rapporto sullo sviluppo umano dell’ONU 2010, il 50% della popolazione vive in condizione di povertà e fra questi un 15% in estrema povertà. È diseguaglianza e ingiustizia, nascere in un paese dove il tasso di mortalità infantile è 26/1000, dove la malnutrizione cronica infantile è al 43% con picchi nella zone rurali, fra le quali l’altipiano di San Marcos, dell’85%.

La disuguaglianza in Guatemala è un vero e proprio elemento strutturale, ramificato all’interno delle istituzioni pubbliche e della società civile, che perdura da cinque secoli. È la “larga noche”, la lunga notte di cui parlano le popolazioni indigene. Sono i cinque secoli di discriminazione e violenza che la popolozione Maya sta vivendo dall’inizio della colonizzazione spagnola. Spodestati prima dai ricchi e fertili territori in cui da milenni vivevano, sono stati ridotti a schiavi da sfruttare all’interno delle grandi piantagioni e mandati a viveri negli altipiani. Quei territori montuosi che oggi, grazie alla ricchezza delle risorse minerarie presenti, sono oggetto di conquista da parte dei nuovi colonizzatori, Multinazionali che in nome di uno sviluppo, che sviluppo  non è, ma puro e semplice profitto per loro,  provocano spaccature all’interno del tessuto sociale delle comunità, alimentano conflitti fra popolo e governo e violentano la natura in nome del “Dio denaro”.

Ho vissuto in Guatemala per quasi un anno durante il quale ho avuto la fortuna di capire che questo non è solo il Paese della coloniale Antigua,  della bellezza mozzafiato del lago di Atitlan o dei paesaggi dai mille colori… il Guatemala è molto di più.

È il paese in cui la saggezza della vita risiede ancora all’interno delle parole degli “chman”, gli anziani delle comunità rurali. È il paese di don Victor, piccolo contadino di San Miguel Ixtaguacan, paese la cui natura è ormai irrimediabilmente contaminata dai veleni residui dello sfruttamento minerario, che osservando i chicchi del caffè ormai prossimi per la raccolta afferma, tristemente: “questo non è il mio caffè”. È il paese dei bambini che pur vivendo in condizioni di povertà estrema sono sempre pronti ad un sorriso. È il paese dove morire per difendere i propri diritti è purtroppo all’ordine del giorno. È un paese che drammaticamente vive in perenne stato di emergenza e che pur avendo le potenzialità e le capacità per permettere una vita degna a tutti i cittadini non ci riesce, anzi. Malnutrizione, mortalità infantile, analfabetismo, esclusione sociale, razzismo, con la violenza che  generano, sono i condimenti tipici della quotidianità guatemalteca.

Ma allora, c’è una via d’uscita? Potremo arrivare mai a “una Guatemala en paz”?

I movimenti indigeni dell’occidente hanno giustamente rivendicato l’Oxlajuj Baktun come il loro tempo. L’ Oxlajuj Baktun è per queste donne e per questi uomini l’ora di rivendicare i loro diritti, il momento di affermare la loro importanza per questo paese, l’opportunità di far sentire al mondo che i Maya non sono un popolo morto e di cui rimangono solo le città abbandonate, ma sono un popolo vivo, un popolo stanco della discriminazione e del razzismo, stanco di modelli di sviluppo economico e umano imposti dall’alto, un popolo che conosce qual è stato il suo cammino e che vuole continuare a percorrerlo.

Il terremoto ha di sicuro accentuato la diseguaglianza endemica presente nella società guatemalteca, ha colpito ancora una volta le persone più umili e non i grandi proprietari terrieri o gli imprenditori, ha colpito la nonna e la nipotina di San Marcos, ha colpito al cuore questo popolo,costringendolo a dormire al freddo, ad abbandonare le proprie case, a vivere senza acqua corrente e luce per giorni, a piangere i propri morti, ma in una cosa sono sicuro non sia riuscito.

Non è riuscito a piegare la sua caparbietà, la sua cocciuta determinazione nello andare avanti, la sua instancabile voglia di rialzarsi dopo che le calamità naturali o le violenze degli uomini gli si sono scagliate contro.

In questa forza è la speranza per avere un giorno “una Guatemala in paz”.

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