Caschi Bianchi Perù

…chiedilo alla polvere…

Impegnato nel scv a Arequipa in un progetto sulla disabilità, diventa l’occasione per conoscere una città dalle tante contraddizioni e per riflettere sulle opportunità che noi gringos (i bianchi) abbiamo e che a volte non riconosciamo.

Scritto da Alessandro Sipolo, Casco Bianco a Arequipa

Arequipa, seconda città del Perù (nel profondo sud del paese), ti accarezza da subito con il suo caldo perpetuo ed un cielo imperturbabile spalancato sopra la Plaza de Armas, trionfo coloniale di palme e sillar.
Il sillar, pietra vulcanica chiara, minimale e maestosa, è l’essenza architettonica della “ciudad blanca”, coricata mollemente tra tre vulcani che offrono agli obiettivi scorci da cartolina.
L’ Arequipa del sillar è una bomboniera che nessun tour gringo che si rispetti può escludere dal suo itinerario peruviano.
La sua posizione strategica regala al viaggiatore la via del Pacifico, dei canyon più profondi del pianeta, del deserto di Atacama, del lago Titicaca.
L’ Arequipa del sillar profuma di serenità, di vite cordiali che scorrono a ritmi decisamente più umani dei nostri, turbate soltanto dall’ordinaria follia del traffico, serpentone nevrotico che stupra l’atmosfera incantata della città. Profuma di pisco sour e di foglie di coca che fanno molto esotico-bohemien senza nemmeno chiedere dazio alla salute. Profuma di rocoto relleno, di ceviche, di lomo saltado e delle mille delizie che impreziosiscono la cucina peruviana.
L’ Arequipa del sillar da bella ragazza scalza diviene di sera signora, quando le luci giallognole vestono a festa il centro storico e perfino il rio Chili, di giorno un po’ sconcio nel suo marroncino malsano, si fa elegante mentre attraversa scuro la città.
E quando sta seduto in centro, sulle terrazze vista cattedrale, cenando con tre euro tra le luci della piazza illuminata, col sottofondo di musica folcloristica, anche il più pezzente degli europei può senza remore sentirsi per una sera un signore.

Ma è proprio la sera che se alzi lo sguardo intravedi lontano l’altra Arequipa. Quella della polvere. Sconfinata e imprecisa, quanto definita e raccolta è quella del sillar.
Questa Arequipa vista dal centro non fa che contribuire alla scenografia, con i suoi mille puntini luminosi che sfumano lontano fino all’orizzonte.
Vista da dentro però è un’altra cosa. Racconta una storia diversa.

L’Arequipa della polvere si compone di distritos, pueblos, barrios lontani pochi minuti dal centro e anni luce dagli occhi dei gringos. Qui gli sguardi della gente locale non sono quelli rapaci di Plaza de Armas, pronti a piombare sul turista ingordo. Qui gli sguardi cercano per lo più la terra. La terra della chacra (il campo), verde di fertilità, dove avanzano curve sugli ortaggi le schiere di donne, mondine delle Ande. La terra delle strade, che lontano dall’irrigazione si fa brulla e avara.
Intorno ai campi si aggrappano a colline di roccia le case dei pueblos. Alcune, dignitose, lasciano al vento i ciuffi di tondino che escono dai muri armati. Altre, praticamente baracche, si reggono su pietre impilate a secco e sfoggiano pavimenti di terra e cancellini di latta arroventata. A volte quest’ultime, come per uno strano vezzo estetico, sono proprio di sillar. Ma questo sillar non riesce a brillare come quello del centro, incorniciato dai faretti.
Qui il sillar, come tutto il resto, è soffocato dalla polvere. Perché le strade (eccetto quella principale che porta alla piazza o al campetto da calcio tirato a lucido dalla municipalità) non sono asfaltate e il caldo costante che fa godere i turisti qui dissangua la terra e la rende polvere. Che filtra ovunque. E arrossa gli occhi. E inciampa il respiro.

L’ Arequipa della polvere è un registro d’ assenze. L’assenza di un piano edilizio, che si palesa nell’accozzaglia di case tirate su in fretta dove e come si può. L’assenza di acqua pubblica, che in alcuni pueblos arriva solo poche ore al giorno e in altri per nulla. L’assenza di un istruzione pubblica di qualità, che costringe i figli a rivivere le miseria materiale e culturale dei padri. In breve, l’assenza dello Stato, amplificata dalla beffa degli slogan elettorali che imbrattano ogni muro utile.

L’ Arequipa della polvere affina la vista. Quando torni in città dopo esserci stato cominci a notare particolari prima trascurati: il filo elettrificato che blinda le case dei quartieri bene (ognuna dotata di guardia privata appostata sull’uscio); le cliniche private, sontuose e degne di uno standard europeo; i grembiulini impeccabili dei bimbi abbienti iscritti ai collegi (privati) più rinomati.
Loro saranno i pochi ad avere un’istruzione decente, un diritto allo studio che li terrà lontani dai campi e dai mille lavoretti del tirare a campare. Loro saranno il Perù che conta, che ce l’ha fatta.
L’altro Perù, quello della stragrande maggioranza, continuerà ad annaspare dentro alla giungla di un economia senza regole né tutele sociali, dove vince il forte, il ricco, il potente.

L’Arequipa della polvere impone lo specchio a te, gringuito, col gillettino e lo zainetto in coordinato. Allora ti chiedi a cosa servi. A che mai servirai? Cosa può la tua carità a tempo determinato dove manca il diritto, la politica, lo Stato? E sei costretto a risponderti che a qualcosa potresti pure servire. Se non a livello macro, dove certo non sarai tu a svuotare il mare col tuo cucchiaio, quantomeno nel minuscolo tuo raggio d’azione. Avrai lasciato un abbraccio, una risata, un’idea eretica, il ricordo esotico di una faccia diversa. Briciole per vite di scarto.
La verità è che anche tu, come i vari gringos che ti hanno preceduto, più che dare stai prendendo.
Stai saccheggiando con gli occhi l’intimità di questi paesaggi, di questi volti, di queste vite.
Stai guadagnando la certezza che la carità è morfina per malati terminali: il diritto, l’istruzione, le politiche sociali sono la medicina.
Stai visualizzando cosa sarebbe il tuo paese se avessero vinto gli altri, varie volte, nella sua storia.
O cosa sarà se gli altri continueranno a vincere.

Guardando il Perù con il cuore in Italia ricordi che la liberazione degli uomini e delle donne italiane non è stata solo quella conquistata sulle montagne dai tanti piccoli Guevara di casa nostra.
La liberazione è continuata grazie alle leggi fondate sui valori della Resistenza: istruzione pubblica, sanità gratuita, previdenza, assistenza sociale, in poche parole welfare state che seppure ancora imperfetti, hanno permesso alle persone di tutte le classi di ottenere elementi di un’eguaglianza finalmente reale. Che ancora va difesa. E alimentata con nuove conquiste.
Perché la libertà senza eguaglianza è libertà di pochi.
E senza pari opportunità il merito è competizione tra privilegiati.

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