Benin Caschi Bianchi

Yovò yovò bonsoir, ça va bien, merci!

L’esperienza di essere cb in Benin diventa occasione per riflettere sull’accoglienza dei beninesi e su quello che apparentemente sembra razzismo al contrario.

Scritto da Valentina Alessandria

Pronta per la partenza, tra qualche giorno il mio anno di servizio civile inizia e si torna in Benin…non vedo l’ora di assaporare quell’aria appiccicosa e umida e scrutare lo sguardo curioso dei bambini di Cotonou…quei bambini dalle pupille dilatate dallo sgomento di vedere un bianco, un yovò…. o dio quei bambini sempre pronti a canticchiare quell’orribile motivetto, nooooooooo…..la canzoncina sui yovò no, l’avevo dimenticata!!!!!

Ed ecco che torna all’attacco….proprio come una banda di paese nel bel mezzo di una festa patronale che non vuole finire!

Appena girato l’angolo dell’albergo, eccoli pronti questi mostriciattoli dagli occhi vispi con in bocca il solito motivetto che non cessa di fischiettarmi in testa.

Io, bianca, passo davanti e gli sorrido, loro (che non aspettavano altro) cominciano a seguirmi urlando a squarciagola: “Yovò, yovò, bonsoir, ça va bien, merci….”. un esemplare tipico di faccio Yovo bonsoir! Kandi, Benin

Mi salutano o mi prendono in giro?

Già la seconda volta in Benin eppure non riesco a spiegarmi cosa voglia dire. Opinioni contrastanti. Qualcuno mi ha detto che è un retaggio della colonizzazione. Un prendere in giro i colonizzatori che visitavano i villaggi ripetendo sempre le stesse frasi, in un francese che nessuno capiva.

Ma io non sono francese e tanto meno sono qui in quanto colonizzatore!!!  Continuo a sorridere e a salutarli e mi incammino verso la mia meta.

Lascio Cotonou per dirigermi verso Kandi, sede del mio progetto.

Non sono mai stata nella regione di Alibori nel nord del Benin, chissà come sarà il paesaggio, e che lingua parlano, chissà come ti salutano i bambini per strada: avranno qualche altra canzoncina anche li?

Arrivata a Kandi, il paesaggio lascia il verde splendente della costa per una brousse completamente bruciata dal sole.

Cambia anche la lingua: il baribà va per la maggiore nelle strade di Kandi. E una nuova canzoncina comincia a scandire in miei passi nel villaggio: “Baturé, baturé, ça va bien?”. Ora qui sono baturé[1]!!!

Ebbene si, anche in questo nord i bambini hanno l’abitudine di seguirti canticchiando un motivetto del tutto nuovo. Mi aspettano fuori dall’ufficio, intrattengono le mie pause, mi accompagnano al mercato.

Mi faccio seguire da queste vocine, ma il mio sorriso si fa sempre più rigido.

Comincio a pensare che non ne posso più di sentirmi chiamare baturé, yovò, anassara… sfumature linguistiche che ti puntano contro il dito solo perché sei una bianca in un paese dell’Africa nera!!!!!

Per la prima volta sono io ad essere dall’altra parte, ma questo non li giustifica. Non sorrido più!

Trascorsi quattro mesi tra Kandi e Cotonou, mi convinco che ormai questi bambini conoscano il mio nome o che comunque si ricordino di me. A Cotonou, prendo lo zemi djan[2] e di buon umore mi dirigo verso la scuola.

Bastano pochi metri per distruggere le mie convinzioni. La canzoncina si ripete e diventa sempre più insistente….aspettano una risposta un cenno, un saluto. Il mio umore si incupisce improvvisamente: mi sbagliavo, dopo tutto questo tempo non sono che una yovò qualunque.

Infastidita da questo stato forzato di anonimato mi rivolgo arrabbiata a Kakà, il maggiore: “Io non mi chiamo Yovò, tu conosci il mio nome, vero?”.

Kakà si spaventa, cambia completamente espressione e rivolge lo sguardo a terra. Terrorizzato, il fratellino risponde prontamente: “D’accord, d’ accord, tu n’est pas yovò, tu est dadà[3]!”.

Intenerita e divertita da questo repentino cambiamento, mi siedo per terra e provo a spiegare ai due bambini che non sono arrabbiata, ma che ormai ci conosciamo da tanto tempo, siamo diventati amici e quindi possono chiamarmi dadà! Uno scambio di caramelle facilita la conversazione e restituisce il buon umore mattutino.

Dopo qualche settimana sono di nuovo a Kandi. Arrivo a lavoro e incontro Noellie, la coordinatrice del mio progetto, sull’uscio dell’ufficio intenta a parlare con una maman del villaggio. Il mio arrivo le interrompe, saluto e la maman comincia a farfugliare qualcosa in baribà. Riesco solo a cogliere qualche parola, tra cui baturé, la mia persecuzione. Congediamo la maman e entriamo in ufficio.

Mi torna in mente la scenetta di Kaka e suo fratello. Divertita comincio a raccontarla a Noellie. Lei mi ascolta, sorride alle mie battute. Poi diventa seria e mi chiede: “Ma perché ti da fastidio essere chiamata Baturé?”.

Io comincio a spiegarle le mie ragioni: “Insomma sono in Benin da cinque mesi, e i bambini che incontro sono sempre gli stessi, ormai mi conoscono. E poi perché rivolgersi a una persona indicando il colore della sua pelle? Insomma, se vieni in Italia e qualcuno comincia a chiamarti nera, gli danno del razzista. Se camminando per la mia città incontro un africano, non lo saluto urlandogli contro ‘buongiorno nero!’ O gli chiedo come si chiama e comincio a chiacchierare, o lo ignoro!!!!!”.

Noellie non riesce a trattenere il sorriso e con sguardo divertito mi risponde:“E’ questa la differenza tra voi occidentali e noi africani, voi avete la capacità di ignorare, noi no! La nostra cultura non ci permette di ignorare un essere umano, la nostra cultura non ci permette di ignorare uno straniero! Per noi l’ospitalità non è solo un piacere, è un dovere. E se quei bambini continuano a cantare quel fastidioso motivetto, è perché vogliono essere i primi a darti il benvenuto nel loro villaggio. Non vedi che fanno a gara per quello che deve essere in prima fila o per chi urla più forte e riesce a strapparti un saluto? Tu credi ch questo abbia qualcosa a che fare col razzismo o, peggio ancora,  con l’indifferenza?”

Le parole di Noellie mi fanno riflettere: non avevo mai pensato che la canzoncina fosse uno slogan razzista, per carità! Ma non avevo neanche mai pensato all’impossibilità di rimanere indifferenti davanti a una persona! È vero, a Kandi come a Cotonou nessuno resta indifferente, non esiste evento irrilevante. Niente passa inosservato e anche l’accaduto più banale lascia le sue tracce e scandisce il tempo di questa quotidianità fatta di piccoli gesti e tante sfumature. Di questa quotidianità che mi ingloba e sento sempre più mia ma che, al tempo stesso, non perde occasione per  porre l’accento sul mio essere straniera.

Note:

(1)Sempre bianca, ma in baribà, la lingua locale.

(2) Moto taxi

(3) Dadà in fon è un modo carino per rivolgersi alla sorella maggiore.

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