Brasile Caschi Bianchi

Melodia di una favela

Un villaggio dal ritmo lento e pacifico come il fiume che lo attraversa, nasconde un cuore ferito, fatto di discariche a cielo aperto, baracche e consapevolezza di vivere come rifiuti della società. Sensazioni dell’arrivo a Parque Estevao, comunità carente di Parnaiba.

Scritto da Aureliano Paolo Finch

Non ho mai riflettuto sul profondo significato di “mal comune mezzo gaudio” prima di arrivare in Brasile.

La credibilità della saggezza popolare deriva dalla lucidità con cui il particolare diviene regola generale; i casi singoli compongono un tutto che, se a un occhio inizialmente inesperto appariva atomizzato, successivamente  spiega la sua potenza di regola quasi scientifica.

La favela di Parque Estevao sorge nella periferia della tranquilla cittadina brasiliana di Parnaiba, luogo dal sapore antico dove il tempo scorre lento nelle assolate giornate tropicali.

Per quanto lo stile di vita dell’intera cittadina mostri una sobrietà aliena dalle sgargianti meraviglie tecnologiche moderne, basta conversare per qualche minuto con i locali per intendere come nessuno qui baratterebbe mai i possibili favori della città per la pace del braccio del Parnaiba, fiume omonimo al villaggio che con esso condivide il ritmo lento e posato.

Non è un caso che uso il termine sobrietà. Infatti, sebbene qui la condizione di carenza sia generalizzata ai più, essa non può essere definita povertà. Condizione indispensabile perché la povertà esista, infatti, è che ci sia una necessità non ascoltata, un bisogno non realizzato. Il bisogno a sua volta è una creatura eclettica, soggetta alla mutevolezza delle condizioni personali, sociali e culturali.

Qui a Parnaiba tutti sono in grado di assolvere alle necessità e ai bisogni sentiti basici, quindi tutti, o quasi, non sono poveri.

Ma come sempre per confermare una regola serve un eccezione. Questa eccezione si chiama Parque Estevao, appunto.

Si potrebbe iniziare dal silenzio; assurdo, irreale e triste. Non uno di quelli belli, di quando rincontri un caro amico dopo tanto tempo e lo abbracci stretto stretto, o di quando stai benissimo con una ragazza, e non servono più le parole per sostenere i pensieri e la grammatica appare come un’invenzione inutile, ma è il silenzio della disperazione.

Una strada sterrata rompe con il contesto circostante e si intrufola in uno spiazzo di verde sporco. Poi, per un momento, il niente.

Di improvviso centinaia di baracche iniziano a crescere davanti agli occhi, sparse su un terreno arido come il deserto e decorato da mille colori che sventolano alla brezza degli alisei. Sono le buste di plastica, che segnano il confine della città scordata dalle istituzioni e usata dalla politica, della città in cui non arrivano autobus e acqua e i cui bambini per andare a scuola devono attraversare la discarica limitrofa.

E’ curioso notare come a Parque Estevao la felicità sembri inversamente proporzionale alla distanza dalla città asfaltata.

I bambini e le bambine delle prime case sfoggiano orgogliosi i loro orrendi giocattoli di plastica grezza, dove il colore verde militare passato a tinta coprente avvolge anche i finestrini delle macchinine, tentativo economicistico per nascondere la rudezza dell’essenza.

La situazione sembrerebbe un crescendo lirico. Dopo l’ouvertur, il primo movimento è rappresentato da un adagio ondeggiare di bambini nudi, con due pezzi di legno legati da un filo di nylon che si spegne nelle loro manine. Una busta di plastica stesa sul rombo completa l’aquilone.

Iniziano a correre in un presto di vita; iniziano a correre, e la corsa è energia.

E’ questo che manca invece all’ultima parte della favela, quella condannata ad affacciarsi sui fumi della discarica a cielo aperto, quella dove un’espansione edile necessita solo di qualche tovaglia in più, e qualche tegola generosamente offerta per essere fatta.

E’ questo che manca all’ultima parte della favela, dove il ridicolo tasso di analfabetismo dell’intera comunità passa in secondo piano, oscurato dal parossismo della disumanità, perchè non sapere il proprio nome a 30 anni è un’umiliazione ben più grave del non saper tracciare dei segni su di un foglio.

E’ questo che manca all’ultima parte della favela. Manca perchè gli abitanti qui si rendono perfettamente conto di essere manipolati, di essere l’ultima ruota del carro, di essere gli intoccabili delle caste indiane. Manca, e la mancanza è povertà.

Ai margini della discarica, dove ragazzi dai 14 anni in su scalano i rifiuti nel tentativo di racimolare quel chilo di plastica riciclabile che vale la bellezza di 6 centesimi di euro, la vita non scorre. Perché se neppure a 5 anni si ha la forza di alzarsi da un angolo lercio di quella baracca di fango, figuriamoci a 40!

Tento di sorridere, ma qui ricevo poche risposte. Anche il sorriso ha un prezzo, e a Parque Estevao sono 6 centesimi di euro.

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