Caschi Bianchi Tanzania

Linee di confine

Soglie, limiti, differenze, ostacoli? Un gioco di equilibri che non è facile definire. Riflessioni da chi vive da straniero, per scelta.

Scritto da Giuseppe Falcomer

Sono tornato in Italia per tre settimane per salutare Benedetta, la mia prima nipote nata da poco, e per rivedere amici e parenti, riposare, staccare la spina dalla mia vita a Iringa. Mi fa sempre sorridere l’idea di andare in vacanza a Portogruaro, la città veneta in cui sono nato, mentre nella città in cui ora vivo vengono turisti da tutto il mondo a passare le loro ferie. Portogruaro è caratteristica, offre buon cibo e ha un centro storico antico, ma mai nessun, che ne so, australiano, vi ha soggiornato tre settimane di fila per puro piacere.

Andando in Italia mi sono fermato una giornata a Dar es Salaam. L’aereo decollava alle dieci di sera e non volevo farmi otto ore di autobus e dodici di aereo più nove in attesa di cambi e check-in in un giorno solo. Quindi ho dormito in un hotel sulla spiaggia e ho passato una giornata al mare.
C’ero già stato altre volte, e la coppia di proprietari mi ha accolto con la bella notizia che stavano aspettando un bambino, la pancia effettivamente già si intravedeva sotto il vestito ampio. Lei è dello Zimbabwe e lui è cileno. Abbiamo parlato della casa di Iringa, infatti ero venuto qui con la mia famiglia a passare le vacanze di Pasqua e loro non avevano certo dimenticato tutti i bambini che avevano riempito di vita il loro albergo. E poi della difficoltà di vivere all’estero come coppia e di argomenti più frivoli. Sono poco più grandi di me, sui trentacinque circa, e sono simpatici. Il giorno dopo mi è venuto in mente l’articolo che ha scritto Simone Ceciliani, il casco bianco in servizio nella struttura che gestiamo mia moglie Marina e io, assieme alla dada Lectilia. Un articolo che trattava il sentirsi bianco qui.

È vero che è strano. Ti senti sempre osservato perché è vero che gli altri sempre ti osservano. Il carisma della Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII inoltre, ti porta a frequentare luoghi in cui la gente non è abituata ad avere persone non di colore nei loro quartieri, dentro le loro case. Insomma, è una situazione che bisogna imparare a gestire. E bisogna anche sommare le diversità culturali, storiche e geografiche, i loro e i nostri preconcetti, entrambi duri a morire.
Con la coppia di gestori ho parlato anche di avere figli all’estero, di cosa potrebbe succedere, quali conseguenza per loro, per i genitori e i parenti. Ho parlato in modo sincero: anche io e Marina prima o poi potremmo avere dei figli, per cui è stato bello e interessante avere un confronto con qualcuno simile a noi, nella nostra stessa situazione. Ho parlato in modo sincero: le uniche semplificazioni le ho fatte a causa della mia scarsa conoscenza della lingua inglese, e non per il fatto che pensavo loro potessero non capire a pieno il concetto che stavo esponendo.
Perché altre volte, invece, è successo così. Con i Tanzaniani a volte non mi apro anche perché penso loro non possano capire un concetto troppo complesso. Ma lei è africana, è nata in Zimbabwe. Ma lei è bianca. Forse questo nel profondo mi ha fatto parlare con lei come se fosse completamente come me. Ho pensato che avesse avuto un’educazione tale per cui potesse capirmi, in tutto e per tutto simile a me. Forse nel profondo sono razzista.

Quando ero all’università, frequentando il corso di sociologia della comunicazione, ho studiato come il linguaggio può influenzare il nostro modo di ragionare. Al corso mi ricordo che insegnavano anche che una cultura orale ha poca capacità di astrazione. E dato che la grammatica ufficiale dello swahili è stata compilata solamente negli anni Sessanta, la prima volta che ci sono andato pensavo di incontrare in Tanzania persone che avrebbero parlato di cose pratiche, e che non potessero spiegare anche gli stati d’animo e i sentimenti profondi.
Queste aspettative sono state un mio errore di valutazione, un mio limite perché in questo caso si può capire a pieno un messaggio solo quando le conoscenze del destinatario sono simili o uguali a quelle del mittente.
Quindi non sono “loro” a essere carenti nell’espressione, ma “io” nella comprensione della complessità, sia pur diversa, della loro lingua e dell’immaginario legato alle singole parole e alla loro cultura in generale. Spesso mi capita di pensare che loro sono diversi da me. In quest’ordine: loro e me. Io la norma, loro l’eccezione. Io il modello, loro la copia, e in quanto tale mancanti di qualcosa rispetto all’originale. Loro mi fanno sentire diverso perché mzungu, con tutto l’immaginario collegato a questo in un paese africano, spesso io faccio sentire loro diversi da me, inadeguati alle mie aspettative o ai miei bisogni. Almeno in questo siamo uguali: ci facciamo notare l’un l’altro che il colore della pelle è una palese dimostrazione di una reale diversità.

Non parlo di tutta la popolazione. Ad esempio con coloro che aiuto, proprio per il fatto che sono qui per aiutarli, il rapporto è sfalsato e lo si sa in partenza. La relazione con la maggior parte delle persone con cui entro in contatto è influenzata da questo mio presunto ‘potere’: i collaboratori, i lavoratori, gli aiutati mi giudicano in base a quello che posso loro offrire e in funzione di questo reagiscono alle mie parole.
Certo ci sono persone di cui mi fido, ma a volte mi domando anche tra queste quante sono le persone che considero a tutti gli effetti uguali a me. Ovviamente nella quotidianità non ho questi pensieri e il mio atteggiamento è aperto: ma ci sono momenti in cui mi blocco nel parlare perché non ritengo i miei interlocutori all’altezza di dare il metro effettivo della mia fiducia.

A volte mi chiedo, dato il mio comportamento, come mai sono qui.
Sono sempre un po’ come quel volontario arrivato da poco a casa nostra che una volta ha cercato di insegnare a mangiare la polenta con le mani ad un bambino accolto di sette anni. Bambino che lo sapeva fare ad occhi chiusi: fare le palline e premere con il pollice nel mezzo per poi usarle come se fossero una sorta di cucchiaio. E se quel giorno non lo faceva il motivo era che era un bambino della sua età: in quel momento, solamente, non ne aveva voglia.
Ecco come capita facciamo noi missionari. Da un lato siamo contenti di aver imparato qualcosa ma dall’altro lo mostriamo volentieri sempre, quindi spesso nei momenti meno opportuni. Palesando il fatto che abbiamo compreso qualcosa delle usanze o abitudini, di come qui si vive cerchiamo subito di dimostrarlo per far capire che non siamo come tutti gli altri bianchi che passano qui in Tanzania. Che noi siamo di casa, che alla fine non siamo mzungu.
Nella nostra struttura, un pronto soccorso sociale per bambini, cerchiamo di dare per quanto possibile una istruzione tanzaniana agli accolti in vista di un auspicato rientro in una famiglia locale. Ma come me, anche i volontari sbagliano nel considerare la cultura africana, nel rapportarsi ad essa.
Da un lato si tende a preservare quei tratti etnici, come mangiare con le mani, che piacciono tanto agli occidentali. Dall’altro il volontario arrivato da poche settimane pretendeva di insegnare gli usi del posto. Ma non era un ‘insegnare’ la tradizione locale, era piuttosto un ‘giudicare’: ed era proprio il volerlo fare dopo così poco tempo che lo rendeva giudizio. Stava affermando che riteneva la cultura tanzaniana talmente semplice da poter essere compresa e addirittura insegnata in breve tempo. Ovvio, l’esempio in questione è solamente indicativo, ma anch’io sono arrivato qui dopo un periodo di formazione, e forte di questo pensando di avere più competenze degli operatori tanzaniani stessi. O conoscenze più nuove e innovative degli stessi missionari. Che a volte possa essere possibile è vero, ma darlo per scontato è un grave errore con pessime conseguenze.

Tutto è giocato sulle linee di confine, soglie che ho attraversato senza nemmeno chiedere permesso né bussare, solo per disattenzione e orgoglio, sopravvalutandomi.
Io non ho il diritto ma nemmeno il dovere di essere qui ad aiutare questa gente, è una mia scelta, una possibilità che ho avuto. E se non voglio che mi facciano sentire diverso, devo io cominciare a non far sentire diversi loro. Dovrei cercare di non credermi migliore di loro. Basterebbe non sentirmi diverso: io comunque mi sento migliore di molti italiani.

Non so quanto questo diario possa venire capito da un italiano, penso invece che possa essere facilmente frainteso, da molti punti di vista: io sono razzista, io sono nel giusto. Alle scorse olimpiadi c’era stata polemica per il fatto che il portabandiera del tricolore fosse un giocatore di pallacanestro nero, e ora col nuovo governo le posizioni xenofobe si sono fatte più estremiste nel linguaggio usato sia dai media che dalla popolazione.
Niente di tutto questo: io mi sforzo di ricordare ogni minuto che in Tanzania sono ospite, io lo straniero, e anche se considero Iringa casa mia, non cerco di far diventare Iringa come casa mia. In ogni caso è vero che cercare di capire senza dare giudizi non è mai stato il mio forte.
Comunque se penso che a volte i tanzaniani sono arretrati, questo è un mio problema. Se lo penso devo prima di tutto capire quale significato ha esattamente per me l’aggettivo ‘arretrato’. Sono sempre stato convinto che non esista un solo progresso, che non necessariamente ogni cultura debba svilupparsi verso un unico punto completamente uguale per tutte. Certo ci sono molti aspetti negativi nella società tanzaniana, ma anche molti positivi da cui io devo imparare.
Se loro mi fanno sentire mzungu e io continuo a trattarli da tanzaniani è un mio problema, finché io per primo e senza pretendere nulla in cambio non comincio a dare loro fiducia.

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