Caschi Bianchi Italia

Piccole storie di migranti: Ibrahim, un ragazzo che fa tutto in silenzio

Dopo un anno come casco bianco, “extracomunitaria” in Palestina, Laura incontra in Italia un giovane arabo, che vorrebbe non essere mai nato.

Scritto da Laura Conti

‘Alah-nou-Salah’ in arabo significa benvenuto. È una parola alla quale non dai tanto valore dopo un po’: la prima che ti rivolgono quando incontri qualcuno nei Territori Palestinesi. E la stessa che ti verrà ripetuta fino all’esasperazione e al paradosso. Alah-nou-Salah, Welcome. Eppure in questa semplice locuzione è espressa la regola sacra dell’ospitalità. Come casco bianco in Medioriente, altro non ero che una straniera per loro. Quella che noi semplicisticamente definiremmo una ‘extracomunitaria’. Nonostante qualche preconcetto ci fosse, dettato forse dalla mancanza di conoscenza, nessuno mi ha fatto mai sentire il peso di essere forestiera. Questo è successo talvolta e soltanto nei checkpoint, di fronte ai militari che usavano il mio passaporto per etichettarmi come buona o cattiva, pericolosa o meno.

Lo scorso ottobre, a un mese circa dal mio ritorno in Italia, una nave con 150 clandestini arriva al porto di Messina, città dove sono nata, rimorchiata da un mezzo della guardia costiera. Un evento raro che un barcone di trafficanti attracchi qui, dato che la rotta è spesso quella di Malta e Lampedusa. Un autobus ha portato con una certa celerità tutti gli adulti al Cpt più vicino, mentre i minorenni, una quarantina, sono stati affidati a una cooperativa. Non sto a raccontare le vicissitudini di questo gruppo di naufraghi della vita, più che del mare. Ma alla fine, sono rimasti in cinque i ragazzi accolti a Messina. Sin dai primi giorni io e alcuni amici appartenenti al gruppo della gioventù francescana (Gi.fra.) della Parrocchia di S.M. di Pompei, abbiamo tentato un approccio con questi giovani. Io col mio scarso arabo, e Sergio con la sua esperienza di educatore provavamo a stabilire un contatto con loro, ma soprattutto ad insegnargli le basi dell’italiano per poter comunicare. Io poi sono dovuta partire, ma Sergio, ormai da sei mesi, incontra due volte alla settimana questi cinque ragazzi, quattro egiziani e un tunisino, nella casa famiglia della cooperativa.
Quello che segue è il racconto di Sergio, e del suo incontro con uno dei giovanissimi fuggiti da miseria, fame e mancanza di diritti.
Il nostro corso di italiano va avanti e loro continuano a comprendere e a parlare piano piano ma sempre meglio la nostra lingua. Ma non è questo che voglio raccontarvi. La settimana scorsa uno dei cinque, Ibrahim ha aspettato la fine della lezione per chiedermi di restare un po’ con lui. Mi ha raccontato che vuole continuare a studiare ma non riesce a farlo da solo e che vorrebbe diventare cuoco.
– Sei bravo, bravissimo!
mi ha detto. Io sono diventato rosso di vergogna. Poi ha cercato di spiegarmi a parole (ma ancor di più con l’espressione del volto) che aveva notato come mi interessassi a tutti loro, soprattutto a chi aveva più difficoltà. Ha concluso:
– Il maestro è bravo bravo bravo.
Il pomeriggio dopo, ha aspettato nuovamente la fine della lezione e si è fermato a parlare.
– Ti piace il tuo compleanno?
– Non capisco… vuoi sapere se mi piace festeggiare il compleanno?
– No, ti piace questo giorno?
Continuavo a non capire il senso della domanda.
– A me non mi piace mai questo giorno.
Allora, ho capito cosa volesse dirmi: “Io vorrei non essere mai nato”.
Mi ha raccontato che lo pensava spesso, che avrebbe voluto rimanere “su” (col dito indicava l’alto) con Allah e Gesù, “tutti in pace”.
Allora gli ho confessato che alla sua età anch’io avevo pensato la stessa cosa. Mi ero detto che sarebbe stato meglio non essere nati, ma che una volta in vita bisognava mettersi in gioco. Lui ha aggiunto che non riusciva a parlare con nessuno perché nessuno è disposto a un vero ascolto, che le parole entrano da un orecchio ed escono dall’altro, che la maggior parte della gente è violenta, pensa a se stessa, ai soldi.
– Lo sai, In Egitto sono stato 5 giorni in carcere.
– Come mai?
– Perché volevo venire in Italia.
Era stato sorpreso mentre tentava di emigrare.
In cella, mi ha raccontato, erano rinchiuse altre persone per reati più gravi, lì aveva visto un poliziotto legare mani e piedi un detenuto e farlo strisciare a terra per tutto il corridoio a forza di calci. “Perché?”, mi ha detto.
– Perché? Uomo io, uomo lui.
Non sapevo che dire, mi sentivo oppresso: gli ho raccontato che alla sua età anch’io avevo un solo vero amico, il mio compagno di banco, ma che poi nel corso degli anni, avevo avuto la fortuna di incontrare ad una ad una altre persone belle, che io e loro volevamo cambiarlo un po’ questo mondo, che sarebbe capitato anche a lui di fare questi incontri. Lui mi ha detto che avrebbe voluto sentirsi dire queste parole molto prima, quando era piccolo.
Ibrahim è un ragazzo che fa tutto in silenzio: in questi mesi l’ho visto aiutare senza ostentazione i suoi compagni in difficoltà, preparare addobbi e scritte affettuose per le feste di compleanno dei suoi compagni, scendere le scale sorridente per buttare la spazzatura, piangere immobile al buio per l’amico espulso.
Ibrahim ha il permesso di soggiorno perché minorenne, ma un domani potrebbe essere giudicato colpevole: condannato per immigrazione clandestina.

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