Caschi Bianchi Tanzania

Crisi alimentare

A Iringa il progetto mense scolastiche dell’Ass. Com. Papa Giovanni XXIII coinvolge 7 scuole e circa 5900 bambini. In alcuni istituti nel mese di aprile 2008 i bambini hanno ricevuto solo due pasti alla settimana, contro i tre abituali. Un approfondimento per cercare le ragioni di una crisi che va ben oltre i confini tanzaniani.

Scritto da Simone Ceciliani

Non ero a conoscenza della portata globale della crisi, pensavo fosse solo un problema tanzaniano, un momento passeggero dovuto semplicemente al caro petrolio, a errori dei leader politici locali, o a chissà quale bizzarria climatica. E invece l’impennata dei prezzi dei generi alimentari ha causato proteste e rivolte un po’ in tutto il Sud del Mondo.

In 37 Paesi è infatti allarme alimentare. “Dalla metà del 2007 i prezzi di alimenti come il riso, il frumento e il mais sui mercati mondiali sono aumentati del 40% e secondo la Banca Mondiale questo rischia di far precipitare altri cento milioni di persone sotto la soglia di povertà”(1). Stiamo infatti parlando degli alimenti base della dieta dei poveri, alimenti di cui non si può certo fare a meno quando non hai altro da mangiare. Qui nella regione di Iringa è il mais a farla da padrone: la polenta è l’alimento primario, quello senza cui, come dicono i Wahehe (il popolo che abita questa zona della Tanzania) “non ci si può sentire pieni”.
Nel ricco Occidente la crisi si è fatta appena sentire, la spesa per l’alimentazione infatti incide per il 10, massimo 20%, sui redditi delle famiglie. Ma quaggiù la storia è ben diversa, dal momento che questa percentuale sale al 60-90 %(2).
L’aumento dei prezzi ha causato forti proteste in Egitto, Costa d’avorio, Marocco, Burkina Faso, Mauritania, Camerun, Bolivia, Uzbekistan e Indonesia.

Anche la Tanzania è stata fortemente colpita dalla crisi, ma a differenza del nord Africa, dove la gente è scesa in piazza, qua la situazione, come al solito, è molto tranquilla. Forse questo dipende dalla maggiore fragilità degli ambienti desertici nordafricani, dove la popolazione è probabilmente più a rischio, o forse sono semplicemente differenze culturali, differenti soglie di tolleranza allo stesso problema. Sta di fatto che qui in Tanzania il livello di sopportazione della gente, che a volte sembra rasentare la rassegnazione, è incredibile. Ma il malcontento c’è. Parlando con la gente, ho sentito che molti attribuiscono la colpa al presidente di turno, Kikwete, responsabile di non aver controllato, a differenza del suo predecessore, l’ascesa dei prezzi. Ma forse qui i governi locali c’entrano poco, vista la portata globale del problema.
I contraccolpi si sono fatti sentire anche sui progetti dell’Associazione Papa Giovanni XXIII qui a Iringa, e in particolare sul progetto mense scolastiche, che coinvolge 7 scuole e circa 5900 bambini.
Mi occupo personalmente della spesa per gli istituti di Ngome e Tumaini dove i bambini, circa 1500, ricevono tre pasti alla settimana: ad aprile, causa caro prezzi, abbiamo dovuto ridurre le mense a due volte a settimana. Tutti i generi alimentari principali, mais, riso e fagioli in primo luogo, hanno subito rincari eccezionali. Il riso è passato dagli 800 scellini al kg di gennaio ai 1100 scellini di aprile (aumento del 37,5 %); il mais nello stesso periodo è passato da 500 scellini al kg a 650 scellini (aumento del 30 %); i fagioli da 850 scellini al kg sono cresciuti a 1100 scellini (aumento del 29,5 %). Se prendiamo poi il lungo periodo l’impennata è ancora maggiore: pensiamo per esempio che l’anno scorso il mais costava solo 300 scellini al kg (rispetto a oggi l’aumento è del 116 %). Per la gente povera tutto questo significa rischiare la fame: “i ceti medi dei Paesi poveri rinunciano all’assistenza sanitaria e alla carne per poter mangiare tre volte al giorno. Ma quelli che dispongono di 1 dollaro al giorno rinunciano a tutto per una scodella di riso”(3).

La causa principale del rincaro in Tanzania sembra essere l’ascesa straordinaria del costo di gasolio e kerosene, legata a sua volta alla crisi del dollaro. In un Paese come la Tanzania, totalmente dipendente dal punto di vista energetico dalle importazioni di petrolio, il contraccolpo è immediato. Se aumenta il costo del greggio, automaticamente aumentano i prezzi dei fertilizzanti, dei trasporti e quindi dei generi alimentari. Un litro di gasolio è passato dai 1530 scellini di gennaio ai 1750 di aprile ( 14,4 %). Si vede subito però come questo aumento non possa giustificare la lievitazione ben maggiore dei prezzi dei generi alimentari (  30% in media).
Le cause, come accennato prima, vanno ricercate su scala mondiale. Si può riflettere su quattro fattori in particolare:
1) riscaldamento globale
2) espansione dell’industria dei biocarburanti
3) politiche adottate dalle istituzioni internazionali in materia alimentare.
4) consumo di carne nei Paesi ricchi
Tutta questa vicenda ci aiuta allora a riflettere ancora una volta sul nostro villaggio globale, sempre più interconnesso e dove quasi sempre gli errori di pochi ricchi ricadono sui molti poveri.

1) Partiamo dalle conseguenze negative del riscaldamento globale causato quasi totalmente dai Paesi occidentali: sono riconducibili all’effetto serra le recenti inondazioni in Indonesia e Bangladesh, la siccità in Australia, l’ondata di freddo in Cina e Vietnam. Questi fenomeni hanno provocato gravi danni alle colture, in particolare di riso, di questi Paesi, con conseguente aumento dei prezzi sui mercati mondiali dei generi alimentari danneggiati. La risposta di molti dei Paesi asiatici colpiti, come Vietnam, Cambogia e Indonesia, è stata quella di ridurre le esportazioni per tenere bassi i prezzi interni: ma “poiché i mercati agricoli sono molto piccoli, ogni limitazione delle importazioni o esportazioni crea tensioni soprattutto altrove”(4). In altre parole, visto il minor quantitativo di merce in circolazione, i prezzi aumentano aggravando così la crisi.
2) Un ruolo importante è giocato dall’espansione crescente dell’industria dei biocarburanti, sbarcata da poco anche in Tanzania, che sottrae terra preziosa alle colture alimentari, sacrificate per far spazio al più redditizio etanolo. Secondo la Banca mondiale “il grano necessario a riempire di etanolo il serbatoio di un Suv (…) potrebbe sfamare una persona per un anno”(5). Nel nostro pianeta, dove sempre più persone muoiono di fame, è assolutamente perverso sacrificare i terreni agricoli per la coltivazione di carburante, ma quest’aspetto viene quasi sempre nascosto: si preferisce invece enfatizzare la faccia positiva di questa tecnologia, che sicuramente abbassa di molto le emissioni di gas serra, ma che va a vantaggio quasi esclusivamente dei consumatori americani ed europei, oltre ad aggravare il problema della fame nel mondo.
3) Sulle politiche in materia alimentare adottate dalle istituzioni internazionali, Eugene Nyambal, consigliere per l’Africa del Fondo Monetario Internazionale ritiene che “la situazione sia il risultato delle politiche raccomandate dalle istituzioni finanziarie internazionali che hanno per decenni sostenuto la coltivazione dei prodotti da esportazione come il cotone…”(6), a scapito ovviamente dei generi di prima necessità. È una storia vecchia questa, che risale al periodo coloniale, quando le terre migliori d’Africa sono state impiegate per le colture da esportazione richieste in Europa, portando nei casi estremi alcuni paesi africani alla monocoltura con tutti i rischi che questa scelta assurda comporta.
4) Il consumo di carne nel nostro pianeta è in costante aumento. Oltre agli standard già alti di Europa e Stati Uniti, la domanda è in forte crescita soprattutto in Asia e America Latina. La pressione non si fa solo sentire sui pascoli, ma anche ovviamente sulla produzione dei cereali che alimentano gli allevamenti: secondo le stime oggi “760 milioni di tonnellate di cereali servono per gli animali: una quantità che potrebbe coprire 14 volte il deficit alimentare mondiale”(7). Per i poveri la carne è un genere molto raro, soprattutto in Africa. Qua in Tanzania il suo consumo è limitato alle feste e alle occasioni veramente importanti. Per il resto solo polenta con verdure cotte e, di tanto in tanto, il riso.
Ma qual è il consumo sostenibile di carne per quelli che se la possono permettere? “420 grammi a testa alla settimana, il 40% circa del consumo medio attuale della Gran Bretagna.”(8)

Il continente che più di tutti sta pagando per questa crisi di portata globale è l’Africa. E questo non certo per la mancanza di terre o per il clima sfavorevole come molti vorrebbero: l’ambiente dell’Africa può potenzialmente alimentare una popolazione di 1650 milioni di persone a fronte degli 821 milioni che lo abitano. In Europa al contrario 701 milioni di persone vivono in un territorio che potrebbe sfamarne al massimo 570 milioni(9).
Ciò significa che il vecchio continente non è autosufficiente dal punto di vista alimentare e la sua sopravvivenza dipende dal consumo sul territorio di altre parti del pianeta: il neocolonialismo, lo sfruttamento dell’Africa e del Sud del Mondo in generale, stanno tenendo in vita l’economia dei Paesi ricchi. Queste cifre smentiscono la bugia secondo cui l’Africa sarebbe dipendente dall’Occidente: al contrario è da ormai alcuni secoli che il continente nero, a costo di enormi sacrifici, sta letteralmente mantenendo il Nord del Mondo, con i suoi standard di vita insostenibili.

Note:

1. Internazionale, 18/24 aprile 2008, p. 11. Editoriale tratto da “The Independent”, GB.
2. Internazionale, 11/17 aprile 2008, p.21. Articolo di Clavreul e Faujas, “Le Monde”
3. Internazionale, 24/30 aprile 2008, p. 11. Editoriale tratto da “The Economist”, GB.
4. Internazionale, 11/17 aprile 2008, p.21. Articolo di Clavreul e Faujas , “Le Monde”
5. Internazionale, 18/24 aprile2008, p.82. Articolo di Gorge Monbiot , “The Guardian”, GB
6. Internazionale, 11/17 aprile 2008, p.23. Articolo di Bernard e Tuquoi, “Le Monde”
7. Internazionale, 18/24 aprile 2008, p.82. Articolo di Gorge Monbiot , “The Guardian”, GB
8. Internazionale, 18/24 aprile 2008, p.82. Articolo di Gorge Monbiot , “The Guardian”, GB
9. Cf: http://www.geomin.unibo.it/geoamb/primapag.htm (sito del corso di geologia ambientale dell’Università degli Studi di Bologna)

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