• Cb Caritas, 2007.

Caschi Bianchi Kosovo

Kossovo: un futuro che corre lungo i fili della modernità e dell’identità albanese

Politica, cultura, società, arte: immagini da un Kossovo che cambia.

Scritto da Sara Cossu

La casa, rifugio per ogni popolo

Considerata la Istanbul parte dei Balcani per la presenza della minoranza turca, Prizren è l’unica città kossovara che le guide turistiche considerano degna di essere visitata. Passeggiando per le sue vie si possono ammirare le tradizionali tipologie abitative che rimandano ancora una volta alle due componenti etniche, quella turca, quella albanese e quella serba. Le case serbe, l’indomani della guerra, sono state fatte sgomberare dai miliziani dell’Uçk e successivamente occupate da famiglie albanesi, o vendute a prezzi stracciati dagli stessi serbi che hanno lasciato definitivamente il Kossovo.
Le scorte di legname nei giardini rimandano alle stufe che riscaldano gli ambienti, i mattoncini di fango e paglia che si possono ammirare là dove si è scrostato l’intonaco, i tetti di tegole ricoperte di muschio, i portoni con i battenti in ferro battuto, le finestre con gli infissi colorati di un blu acceso che fa concorrenza a quello di Klein, le travi lignee dove i tarli hanno trovato dimora, che hanno reso Prizren famosa per la sua architettura, e permettono ancora di sognarla come luogo dove la vita delle persone scorre in pace e senza tempo, lenta come il fumo denso che esce dai suoi comignoli.

Una tradizione al passo coi tempi

In Kossovo ci sono la modernità incontra la tradizione in modi diversi… Seghe circolari a benzina si spostano là dove c’è bisogno di tagliare la legna per l’inverno.
Dentro piccole botteghe incorniciate da tegole antiche puoi aggiustare i tuoi elettrodomestici Candy e Gorenje.
L’elettricità corre in ragnatele di cavi abusivi, qualche volta sosta pericolosamente in grovigli di fili, ma finalmente dopo secoli, mette a riposo la voce del hogja (muezzin in albanese) che dagli altoparlanti delle trenta e passa moschee di Prizren chiama i fedeli alla preghiera cinque volte al giorno.
La Nike con un po’ di vernice rossa dà il nome ad una butik per le vie del mercato di Peja.
Qualche prodotto è importato da Napoli sulle note di O sole mio.
Moderne università private sorgono ovunque e offrono il sogno di studi al passo con l’Europa.
Mucche rassegnate per il freddo si aggirano sull’asfalto ghiacciato, tra le auto che qualcuno con una storia di migrazioni in Germania si è portato in Kossovo.

Scena da un “quasi” matrimonio

È proprio il caso di dirlo: al matrimonio i kossovari ci tengono davvero tanto. Ne è la prova la limosina parcheggiata per pubblicizzare sogni di cerimonie in grande stile che possono trasformarsi in realtà, la miriade di butik dove puoi provare abiti da cerimonia moderni e tradizionali, aspettando il giorno del fatidico sì. E facendo magari una scelta un po’ eccentrica e accontentando parenti e amici nazionalisti, perché non optare per la sobrietà di un abito rosso con un corsetto dove si è poggiata un’aquila bifronte di pailletes nere, simbolo dell’albanesità che freme per spiccare il volo verso l’indipendenza?

Liberismo edilizio

Il Kossovo cambia ogni giorno, perché è come un grande cantiere aperto. In fila, l’uno dopo l’altra, sfilano rivendite di lapidi o di mattonelle e mattoni, cumuli di carcasse d’auto ed autobus arrugginiti, edifici in costruzione circondati da impalcature dove lavorano tanti operai che sfidano qualunque Legge 626, cimiteri ortodossi e cimiteri musulmani dove beate, le mucche brucano l’erba in mezzo alle tombe, casette con il prato inglese attorno e qualche cespuglio di fiori che chiedono una parvenza di normalità. Si alternano ancora piccoli prefabbricati dove si vendono sigarette e ricariche telefoniche, terreni con piramidi di letame, vigneti, rivendite d’auto comprese quelle di lusso, shopping centers, venditori di zucche, uva e peperoni, distributori di benzina, campetti da calcio. Lo sguardo si poggia sui monumenti agli eroi dell’Uçk (l’esercito di liberazione albanese), fontane prefabbricate, aquile, pecorelle di gesso per ornare l’ingresso di chissà quale casa o ristorante. Lungo la via, non mancheranno palazzoni degni di qualunque metropoli americana, piramidi di zolle d’asfalto e pneumatici abbandonati, fosse profonde, macchinari che producono sabbia e ghiaia tra nuvoloni di polvere, colline sventrate trasformate in cave a ridosso delle strade. Infine montagne di rifiuti di ogni sorta e qualcuno che ci fruga alla ricerca del recuperabile, aquile bifronti nere che si librano su bandiere rosse alla ricerca di un’indipendenza che tarda ad arrivare.

Un altro Kosovo è possibile 

Il Kossovo è anche i paesaggi mozzaffiato di Novo Brdo, montagne innevate della Rugova e a Bresovica che irrompono improvvisamente all’orizzonte, dolci pendii coperti da boschi e percorsi da animali liberi al pascolo.

Pacchetto Ahtisaari e il crepuscolo dell’ONU

La comunità internazionale è ancora incapace di trovare una soluzione che legittimi sotto il profilo del diritto internazionale ad un’eventuale indipendenza del Kossovo e che soprattutto eviti il riaccendersi del conflitto tra albanesi e serbi. La Serbia, sostenuta dai leader russi, si oppone a quest’indipendenza fermamente voluta invece dalla componente albanese, e sostenuta dagli USA e dalla NATO.

Che tra i kossovari si stia diffondendo sempre più un clima di sfiducia e disillusione verso l’amministrazione ad interim delle Nazioni Unite (UNMIK) e verso uno dei rappresentanti dell’ONU, l’inviato speciale Martii Ahtisaari, è chiaro anche da questi cassonetti dell’immondizia, che lungo tutte le strade di Prishtina lanciano lo stesso messaggio… Infatti se da un lato il pacchetto presentato ha proposto uno sganciamento senza ritorno dalla Serbia, dall’altro ha lasciato in sospeso questioni legate alla sovranità e alla piena indipendenza, al rapporto tra serbi e autorità centrale albanese, alla presenza della comunità internazionale e alla protezione dei luoghi di culto ortodossi.

Tutti albanesi. Tutti fratelli.

L’albanesità in Kossovo supera le divisioni tra le religioni, unendo il cattolico al musulmano. Essere albanesi significa essere fratelli. Stessa lingua, stesse tradizioni, stessi costumi tradizionali. Lo è stato per secoli. Lo è stato durante la guerra che ha visto cristiani e musulmani uniti indistintamente contro i serbi.
Lo ricorda la lapide di marmo all’ingresso della chiesa di Peja che onora chi è stato barbaramente ucciso. Lo ricorda il calendario di combattenti datato 2003 fermo alla guerra del ‘99, insieme all’immagine dell’uomo con alle spalle l’aquila bifronte simbolo dell’identità alabanese, deceduto proprio durante quegli scontri. Gesù e Maria custodiscono il suo ricordo.

Elezioni per un Kosovo che ancora Stato non è

Il 17 novembre il 45 % degli aventi diritto al voto ha eletto i propri rappresentanti ai comuni e all’Assemblea parlamentare, dentro l’imbarazzo del paradosso politico di elezioni per un Kossovo che Stato ancora non è. I politici, secondo alcuni illegittimamente al potere, saranno soprattutto chiamati a guidare la delicata transizione verso l’indipendenza di un territorio che la Serbia continua a considerare sotto la propria sovranità.
Nonostante siano avvenute in un clima di generale sicurezza, sotto l’occhio vigile della comunità internazionale, le elezioni sono state boicottate dai serbi kossovari per ordine di Belgrado e allo stesso tempo sono state accompagnate da un senso di sfiducia e di disillusione diffuse tra gli albanesi, dovuta alla questione ancora in sospeso dello status.
Il PDK ha vinto con il 35% dei voti, ed il suo leader Thaçi, ex combattente dell’Uçk, si è aggiudicato il titolo di primo ministro. L’LDK partito di Sejdiu e del defunto Presidente Rugova ha ottenuto il 22% mentre l’AKR di Pacolli, faccendiere svizzero kosovaro che deve il suo impero ai russi amici di Belgrado, ha convinto il 12% dei votanti.

La campagna elettorale ha promesso alla gente un Kossovo indipendente vicino all’Europa, agli USA e alla NATO. Promesse trasversali a gente diversa, che vive sospesa tra la tradizione e la voglia di futuro fatta di ragazze musulmane che portano il velo e passeggiano per le strade di Pristina, di cittadini di Prizren dove un incendio ha devastato il comune a pochi giorni dal voto e dove la KFOR tedesca ha presidiato le strade, di chi cuce abiti e vende anche miele, di giovani che lanciano campagne di disinfestazione politica e consigliano di non votare per chi ha detto papà, di cittadini che per le strade di Peja incontrano il volto rassicurante dell’imprenditore miliardario Pacolli e una mucca che cerca tra l’immondezza un filo d’erba da brucare. Il movimento Autodeterminazione, boicottando il voto in maniera originale, ha acceso il semaforo rosso sulle elezioni agli incroci di Prishtina dicendo di non votare!

Tre modi per dire Dio

I minareti che spuntano ovunque guardi. Il campanile della chiesa di Peja e il sangue e il corpo di Cristo sull’altare nella Chiesa di Prishtine per il ringraziamento d’autunno. La chiesa ortodossa di Prizren distrutta durante i disordini di marzo 2004 che nessuno inizia a ricostruire. Sono tutti simboli di un Kosovo multireligioso che non è ancora sempre in pace con se stesso.

Percorsi d’arte, percorsi di pace

L’arte è nelle mani degli artigiani di Prizren che lavorano la filigrana e fanno volare le farfalle nei cuori delle persone. L’arte è nelle mani dei ragazzi che in una scuola di Prishtina hanno tradotto l’Iliade in albanese e hanno affidato i loro messaggi di pace ad una Guernica, tutta in versione kossovara, perché dentro l’alba di nuove speranze nessuno gridi più al mondo le atrocità della guerra.

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