Caschi Bianchi Palestina / Israele

Il 25 febbraio a Nablus: l’altra faccia della medaglia

Di fronte al dolore di una famiglia di Nablus dopo cinque giorni di occupazione: la difficoltà di capire come la perdita di una vita umana possa essere definita “effetto collaterale”.

Scritto da Anahi Ayala Iacucci. Video: Laura Conti. Foto di Federica Battistelli

Il suk di Nablus è uno dei più attivi di tutta la West Bank. Odori, suoni, bandierine colorate, vecchi, donne, urla di bambini, uccelli vivi e morti, capre, galline, frutta, vedura, carne appesa con il solo prezzemolo a scacciare le mosche…niente può descrivere il suk di Nablus come andarci di persona. Mentre mi infilo sotto i bassi archi della città vecchia, tutti riconoscono che non sono una locale “Welcome, welcome to Nablus!” Tutti sono benvenuti qui, anche se questa città ha la fama di essere una delle più pericolose dei Territori Occupati: solo un mese fa tre ragazze americane sono state rapite e poi fortunatamente liberate dopo poche ore. L’attuale situazione politica dell’Autorità Palestinese ha portato nella città allo scoppio di frequenti scontri, sempre violenti, tra le fazioni palestinesi, con frequenti sparatorie tra Fatah e Hamas.

Per me Nablus rimane sempre Nablus, ed io, che ho scoperto la Palestina a Nablus due anni fa, non posso fare a meno di sentirmi a casa mentre mi infilo tra le stradine del mercato cercando di schivare i carretti di frutta e verdura che pretendono di passare tra le decine di persone accalcate alla ricerca di un buon affare. L’assedio delle ultime due settimane non ha distrutto la città, non in modo evidente almeno. Ma i suoi effetti li vedi sulle facce della gente, nei loro occhi, nei particolari che ad un osservatore non attento possono sfuggire. Alcuni negozi sono chiusi, molte finestre sono coperte di stracci, i bambini, in genere numerosissimi e molto socievoli, sono pochi e schivi. Negli occhi di ogni persona leggo storie di ordinaria follia, di un’occupazione che segue altre occupazioni e sarà seguita da altre ancora. Ovunque, poster colorati che ritraggono giovani kamikaze in posa da combattenti, con fucili di ogni fattura e tipo tra le braccia, e sfondi da apocalisse dietro le spalle. Il poster di M.S. però è diversa: non ritrae un giovane macho, con M16 tra le braccia e keffia a mo’ di bandana. Nel poster di M.S. c’è solo lui: un uomo di 50 anni, capelli e baffi grigi, dalla faccia direi magrolino, un mezzo sorriso imbarazzato di chi non è abituato a farsi fotografare. Ai lati, due bandiere palestinesi. Questo è il poster che tappezza le vie della città per ricordare l’ennesimo martire della resistenza palestinese. Si perché qui martire non è solo chi muore volontariamente come i kamikaze, martire qui è chiunque muore a causa dell’occupazione e del conflitto con Israele. M.S. era davvero troppo vecchio per mettersi a lanciare sassi o per imbracciare un fucile. M.S. era un vecchietto di 50 anni, con insufficienza respiratoria che viveva nella sua casa con la moglie, due figli e cinque figlie, una delle quali paralizzata alle gambe, e rispettivi nipoti e generi. M.S. non era un combattente, era più un resistente, nel senso che cercava di resistere agli stenti dell’occupazione continuando a condurre la sua vita normalmente. Probabilmente stava proprio pensando alla situazione della sua città quella mattina quando ha deciso di farsi una doccia. Sì, perché, dopo essere entrato nel bagno, si è ricordato che la pompa dell’acqua era chiusa perché c’era il coprofuoco 24h su 24, così ha chiamato suo figlio più grande e gli ha chiesto di salire sul tetto per aprirla. Poi ha aperto il rubinetto ed ha cominciato a lavarsi. Probabilmente sotto la doccia il rumore dell’acqua ha coperto le urla che provenivano da fuori. E anche il rumore degli spari diretti contro la casa e provenienti da un tank israeliano appostato lì fuori. M.S. deve aver capito cosa succedeva solo quando un gas lacrimogeno ha sfondato la finestra del bagnetto, finendo proprio di fronte alla doccia. O forse no. Forse non ha realizzato subito cosa succedeva quando il fumo ha cominciato a riempire la stanza e l’odore si è fatto così forte da fare a fatica ad inalare. Quando gli occhi hanno cominciato a lacrimargli e la pelle a bruciare. Quando il cuore ha cominciato a battere all’impazzata per cercare di pompare più ossigeno e la bocca si è spalancata in cerca di aria. Quando è caduto a terra perché le forze gli sono mancate e l’unico rumore che riusciva a sentire era quello del suo cuore che come un tamburo scandiva gli ultimi minuti della sua agonia.

Jihan non ci ha pensato subito. Era troppo occupato a cercare le sorelle, la madre, i nipotini..ma poi tutto quel fumo deve averglielo ricordato: sì, il babbo! Il babbo nel bagno! Il babbo che soffre di asma, il babbo che stava facendo la doccia… Ma a quel punto era troppo tardi: troppo tardi per Jihan, troppo tardi per M.S., troppo tardi per tutto. Troppo tardi per me per cercare di dimenticare i suoi occhi mentre mi racconta come ha trovato suo padre morto soffocato nel bagno. Troppo tardi per fermare il flusso di lacrime di una madre che ascolta il racconto del figlio e cerca di parlare, ma le parole le si strozzano in gola. Troppo tardi per me per dire qualsiasi cosa che possa avere un senso a queste due persone e per capire come una vita possa essere considerata un effetto collaterale. Le truppe israeliane hanno occupato Nablus per circa cinque giorni,dal 25 febbraio all’1 marzo, ma l’assedio è durato per ben due settimane, imponendo un coprifuoco totale sulla città, chiudendo tutte la scuole, le tv, le radio, gli uffici. Gli ospedali sono stati posto sotto assedio e le ambulanze bloccate, il personale umanitario interdetto dalle zone interne alla città vecchia. Due scuole sono state trasformate in campi di detenzione militare temporanea, dove centinaia di persone, tra le quali alcuni bambini e una donna incinta, sono stati detenuti ed interrogati, per giorni. Circa una decina di negozi sono stati dati alle fiamme, ed almeno due palazzine distrutte completamente dai buldozer. Una ventina di case sono state occupate dai militari che hanno costretto i loro abitanti a stare chiusi in una stanza per tutta la durata della presenza dei militari nell’abitazione. Una bambina di 11 anni ed un ragazzo di 16 sono stati usati dai soldati come scudi umani per effettuare perquisizioni nelle case.

M.S. è una delle due vittime di questa offensiva militare che ricade sotto il nome di operazione “Hot Winter”. Scopo dell’operazione militare, quello di catturare sette pericolosi militanti della Jihad Islamica. Dopo cinque giorni di occupazione nessuno di loro è stato trovato. M.S. è solo un danno collaterale, un incidente di percorso all’interno di un’assolutamente fallimentare operazione militare compiuta in totale violazione non solo di qualsisi regola di diritto internazionale umanitario, ma anche di qualsiasi regola di coesistenza tra esseri umani. M.S. è solo un altro dei tanti effetti collaterali che Israele è disposto a causare in nome di una ipotetica maggiore sicurezza del suo popolo

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