Caschi Bianchi Russia

Storie di famiglia

Dopo 6 mesi di servizio civile trascorsi sotto lo stesso tetto, sono ormai familiari i volti dei tanti accolti delle case famiglia di Astrakhan e Volgograd: ragazzi di strada, adulti senza fissa dimora, giovani tossicodipendenti. Vite e strade molto differenti, che accettano la sfida di incontrarsi e vivere come in una famiglia per crescere insieme, riscattarsi, riscoprire la dignità di ogni essere umano.

Scritto da Mirella Zanon, Casco Bianco ad Astrakhan

“Buon viaggio hermano querido
e buon cammino ovunque tu vada
forse potremo incontrarci di nuovo
lungo la strada…” 
(MCR)

Si dice che solo quando ci si stacca da qualcuno o da qualcosa ci si rende davvero conto di quanto importanti siano per noi. Io ho questa impressione cucita addosso da quando sono tornata in Russia, dopo 10 giorni in Italia.
Sono rientrata per un periodo così breve per stare con la mia famiglia e i miei amici, e non ho mai messo in discussione l’affetto che provo per tutti loro. Mi sono sempre vicini nonostante la mia lontananza e ciascuno a modo proprio riesce ad accompagnare i miei passi qui. Solo che dopo 6 mesi di servizio civile qui in Russia mi accorgo che è nato un legame molto forte con la gente, la terra e la vita qui, e ciò che è particolarmente curioso è che la consapevolezza di tutto questo si è definita proprio mentre ero in Italia. Probabilmente staccandomi dalle realtà con cui ho a che fare ogni giorno a tempo pieno, ho avuto chiaro di quanto ogni persona, ogni situazione ed ogni paesaggio mi siano entrati sottopelle e mi stiano plasmando più di quanto potessi immaginare.

Astrakhan
Vivo in una casa famiglia nella periferia di Astrakhan,

che a poco a poco sta diventando anche comunità terapeutica per ragazze. Siamo in undici adesso, e non potremmo essere più diversi tra noi.
C’è Lea, la responsabile della casa (1), che fa da mamma, da operatrice e da amica. Ha 33 anni e si trova in Russia da più di 6. Angelika e Nastja sono le due ragazzine che per prime ha accolto con sé, con coraggio, pazienza e costanza. Angelika è sordomuta dalla nascita, ha 11 anni e da poco ha subito un’importante operazione che col tempo le permetterà di parlare e sentire. In questo periodo infatti sta seguendo la riabilitazione necessaria affinché possa abituarsi ai suoni, a quella che è la nostra “normale” comunicazione, anche se lei finora ha sempre trovato il modo di farsi capire, in un linguaggio tutto suo, sorprendentemente diretto e contagioso nella sua semplicità. La considero come la mia sorellina minore, ed in fondo anche se non me lo dice so che lei contraccambia, e me lo fa capire con i suo baci e abbracci.
Nastia ha 16 anni, a volte sembra vivere in un mondo creato dalla sua fantasia, ma è un’adolescente come tutti quelli della sua età, con i suoi sbalzi d’umore e le sue preoccupazioni. Certo a volte esagera con i suoi capricci, fa perdere la pazienza, poi però ti stupisce con i suoi slanci d’affetto.
A completare il terzetto più colorato della casa, Albert, armeno, che vive qui con la mamma. È sempre in movimento, ama scherzare con tutti; la musica e i giri in macchina sono la sua passione. Ha un ritardo mentale che a volte lo fa sembrare più bambino dei suoi quasi 18 anni. Tante sono le preoccupazioni sul futuro che riversa sulla madre, Svetlana. Appartiene a questa piccola famiglia armena anche il padre di Svetlana, Spartak, che lavora come cuoco in un ristorante giapponese a tempo pieno, circa 12 ore al giorno. Svetlana non vive più col marito da quando ha scoperto che era tossicodipendente e non era in grado di prendersi cura né di lei né del loro figlio. Da alcuni anni si è trasferita nelle strutture della Comunità, dove il suo aiuto è prezioso sia con i ragazzi accolti che nelle faccende domestiche.Un’altra presenza importante nella casa è quella dei ragazzi che seguono il programma terapeutico: attualmente ci sono Natasha e Katja, di 28 e 26 anni, e Sasha, di 22. Lea è la loro figura di riferimento, sia per quanto riguarda il loro cammino di crescita personale che la concretezza del programma di riabilitazione. Con loro svolgo alcuni dei compiti giornalieri, rido e scherzo, ma soprattutto cerco di essere loro vicina con il mio supporto

quando hanno voglia di raccontarmi un pezzetto delle loro storie. Il confronto con loro per me è importante, perché rispetto ad alcune problematiche mi offrono delle chiavi di lettura inedite, e devo ammettere che il rapporto con la realtà della tossicodipendenza mi sta facendo maturare molto come persona.
Fino a qualche giorno fa viveva con noi anche Galja, una ragazza russa di 27 anni. Originaria della zona degli Urali, per più di un anno ha vissuto in casa con Lea lavorando al conservatorio di Astrakhan; ora è tornata a casa dalla sua famiglia, senza avere ancora del tutto chiara la strada da intraprendere in futuro.Nonostante il fatto di essere una famiglia numerosa con esigenze diverse, in casa si respira un clima di grande affiatamento. Anche nei momenti più difficili Lea riesce a riequilibrare le dinamiche relazionali con il dialogo. Le nostre giornate trascorrono tra i lavori di casa, le faccende domestiche, gli impegni con la scuola, i lavori alla dacia (2), i momenti di formazione in cui affrontiamo tematiche vicine alle nostre esperienze, ed a volte c’è anche tempo per qualche gita al Volga o fuori città, ora che finalmente è arrivata l’estate. Niente di diverso da tutto quello che può ruotare attorno alla vita di una famiglia nella Russia meridionale…o forse sì, tutto completamente diverso rispetto alle famiglie che, sempre più numerose, si disgregano a causa dell’alcohol e non sono in grado di garantire né un presente né un futuro sereno ai propri figli.

Lea riesce anche a trovare il tempo per curare un progetto di adozioni a distanza dall’Italia a favore di alcune famiglie di Volgograd, progetto a cui anch’io sto dedicando del tempo in questi mesi. Attraverso i contatti con queste famiglie molto povere e con figli disabili ho approfondito la conoscenza del contesto russo, dal punto di vista socio-assistenziale ed economico. La condizione della famiglia in Russia è spesso inadeguata alle esigenze dei minori, soprattutto perché le madri si ritrovano da sole a crescere i figli con risorse economiche esigue. L’associazione cerca di offrire un sostegno umano a queste famiglie, oltre ad un piccolo contributo economico, dato che generalmente si ritrovano isolate rispetto al contesto sociale in cui vivono.

Un altro momento in cui si cerca di intervenire sul territorio è quello dell’assistenza alla gente di strada, i “bomzhi” o “bezdomnye”(3). Due volte a settimana ci si reca in città per offrire un pasto a chi vive ai margini della società, elemosinando presso la stazione, al grande mercato cittadino o davanti alle principali chiese ortodosse della città. Si tratta di un momento molto intenso per me, perché vengo a contatto con storie di sofferenza e di emarginazione quotidiana, con persone che ci aspettano non tanto per poter mangiare, ma soprattutto perché rivolgiamo loro la nostra attenzione, preoccupandoci della loro salute e soprattutto ascoltando le loro voci.

Il progetto dedicato ai barboni è curato da Alberta, responsabile dell’altra casa famiglia della Comunità presente ad Astrakhan. Alberta è in Russia da 15 anni e accoglie in casa Katja, Serghej e Svetlana, tutti adolescenti con diverse problematiche fisiche e famigliari; inoltre ha adottato Tonja, ragazzina down con lei già da 8 anni. Con loro vive Daniel, il volontario tedesco che svolge il suo servizio per un anno con i bambini di strada presso il centro Caritas della città. Fino a poco tempo fa, faceva parte di questa famiglia anche la babushka, una nonnina originaria del Tatarstan. Quando Alberta l’ha incontrata la prima volta, la nonna era sdraiata per terra sul pavimento della stazione, a –20 gradi; da quella situazione alla proposta di condividere lo stesso tetto non ci sono stati dubbi. Anche se non riesco a passare molto tempo con loro, si è instaurato un bel legame con tutti i membri della famiglia e accolgo sempre volentieri le occasioni di incontro e di festa.

Fino ad un paio di anni fa le due case famiglia vivevano sotto lo stesso tetto, per cui i bambini ed i ragazzi accolti sono molto legati l’un l’altro, e l’atmosfera che si respira quando ci si ritrova insieme è di festa: si gioca, si ride e si scherza, si sta come in un’unica grande famiglia. Il ritorno ad Astrakhan è un ritorno a casa, in mezzo a persone con cui condivido le mie giornate, le gioie e le difficoltà quotidiane.

Volgograd

Se Astrakhan è il mio punto di riferimento, il posto dove amo stare, che sto imparando a conoscere e ad accettare nelle sue zone d’ombra e di colore, nelle strade polverose e nella facce della gente, e anche perché in fondo mi ricorda a tratti la mia Treviso, Volgograd è il primo posto dove sono arrivata dall’Italia, il posto dove torno sempre volentieri, di passaggio per fermarmi qualche giorno. È la città delle prime impressioni, delle prime facce familiari e dei primi contatti con la sofferenza della gente di strada.

Fin dal primo impatto con il quartiere dove si trovano le strutture della Comunità ho avuto la sensazione di una città ambigua, dove l’attaccamento al ricordo del passato serve quasi a distogliere lo sguardo dalle problematiche di povertà diffusa del presente.
Il quartiere Dsezhinskij è abitato in prevalenza da zingari ed è noto in città per essere zona di spaccio e di delinquenza. Proprio qui è nata la comunità terapeutica che accoglie in prevalenza ragazzi tossicodipendenti e qualche alcolista. Si tratta di un centro di riabilitazione maschile, dove arrivano ragazzi sia dalla stessa Volgograd che da altre città; negli anni è cresciuto il numero di famiglie che la contattano per cercare di salvare i propri figli dalla tossicodipendenza. Attualmente oltre a Davor e Nikita, i due operatori, ci sono due ragazzi che stanno seguendo il programma terapeutico, Ilja e Stepan. Ci sono stati alcuni cambiamenti nell’ultimo periodo e presto ci saranno nuove accoglienze.

Vicina alla comunità terapeutica si trova la casa di accoglienza di Marco, 29 anni, in Russia da circa 7 anni. L’idea è quella di un posto dove le persone senza un punto di riferimento possano trovare il calore di un ambiente familiare, dove potersi sentire a casa. Oltre a Giuseppe, l’altro Casco Bianco arrivato in Russia con me, attualmente con Marco vivono tre accolti, Jura, Anatolij e Ruslan. Jura è di sicuro il personaggio più interessante: reduce da 34 anni di carcere in Siberia, è una persona al primo impatto molto rude; a volte succede che beva un po’ troppo e diventi incontrollabile, con scatti d’ira e di violenza. Tuttavia, ai racconti degli episodi più estremi io contrappongo lo Jura che conosco personalmente: una persona intelligente, dolce a modo suo, in continua ricerca di attenzioni e di affetto, che ama la lettura e andare a pescare. Ha un hobby particolare, allevare colombi nel giardino di casa, liberarli e farli volare; li accudisce con la passione con cui una madre si occupa dei propri figli. Purtroppo Jura non va d’accordo con Anatolij, un vecchietto che chiedeva l’elemosina in strada, fino a quando non è diventato cieco a causa dell’alcohol, ed è stato accolto in casa. È di sicuro la presenza più silenziosa della casa, ma anche se non vede ha imparato a farsi vedere e sentire quando ce n’è bisogno. Infine un’altra presenza stabile ormai da quasi 5 anni è Ruslan: per capirlo, è necessario conoscerlo. Ha un ritardo mentale che a discapito dei suoi 30 anni lo rende a tratti bambino: ha sempre le tasche ricolme di caramelle, e Marco ha il suo da fare per evitare che spenda tutti i soldi che riceve come rendita da un piccolo appartamento in centro per comprare dolci e pirozhki, i tipici tortini salati russi, nei chioschetti della città. Tra le sue manie le più inusuali ci sono di sicuro quella di disseminare icone per tutta la sua stanza, la passione per il turno del lavaggio piatti, che svolge sempre ed esclusivamente senza farsi aiutare da nessuno. Con lui si ride e si scherza di tutto, e nonostante a volte non sia facile gestire i suoi repentini cambiamenti d’umore, non si può fare a meno di notare il suo cuore buono e sempre pronto ad aiutarti.

Un momento particolarmente intenso della vita della casa è il progetto di assistenza per i senza fissa dimora: circa quattro volte a settimana Marco, Giuseppe e Ruslan portano un pasto caldo e le cure necessarie a chi vive in strada. Quest’aiuto è particolarmente prezioso d’inverno, quando il freddo uccide e la solitudine diventa un tarlo ancora più insopportabile per la mente e per il corpo. Marco conosce ormai tutti per nome, e la gente di strada lo aspetta come un amico con cui poter fare quattro chiacchiere. A turno qualcuno si reca a casa con loro per potersi lavare e cambiare i vestiti; a volte capita che venga accolto per un periodo chi si trova in condizioni di salute particolarmente critiche. In questo momento stiamo raccogliendo dei fondi per poter aprire un centro dedicato interamente ai barboni, dove possano mangiare, lavarsi e dormire senza dover continuamente vagabondare per la città.È stato nei miei primi giorni in Russia, nel freddo pungente di dicembre, che ho visto per la prima volta le facce di queste persone. Facce che non dimenticherò, facce di chi ha perso la speranza, con gli occhi spenti, ma facce che sanno sorriderti e ringraziarti per averle guardate ed esserti preoccupato di loro. Gente che viene, gente che se ne va. Gente che non sai se domani incontrerai ancora. Facce che restano impresse prima nel cuore che negli occhi, come le facce delle persone con cui condivido le mie giornate. Facce che fanno male, perché mi ricordano che io ho un passaporto diverso dal loro, e che in caso di bisogno prendo l’aereo e me ne torno a casa mia, in un altro stato, per quanto io possa sentirmi a casa qui. Questa invece è la loro vita, e qui devono viverla. Tuttavia sono facce che mi ricordano anche che la dignità umana va oltre il nome scritto su un pezzo di carta, e che non servono grandi cose per dimostrarlo: condividere la propria vita, passo dopo passo, ogni giorno, è già segno che la vita di chi mi sta accanto non è meno importante della mia.

Sembra che molte persone legate all’Associazione siano passate per la zona Russia, ma non si siano fermate a lungo. Io non ho ancora deciso se tornerò qui dopo quest’anno di servizio civile, per quanto tempo, e con quali modalità. Tuttavia mi resta una certezza: la vita ha un gusto particolare qui, e i gusti non si descrivono né si possono imitare: si possono solo assaporare. E non si dimenticano mai, una volta che li hai provati speri sempre di poterli ritrovare lungo la strada.

Note:1. Membro dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, come Alberta e Marco, citati in seguito.
2. La dacia è la casa fuori città che molti russi hanno, circondata da un appezzamento di terreno dove è possibile coltivare ortaggi e frutti ad uso proprio o dove si può comunque riposare. A seconda del reddito della famiglia che la possiede, può essere molto rustica o lussuosa.
3. Vedi sotto, articoli collegati: “Vite senza nome” e “Cittadini onorari”.

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