Caschi Bianchi Palestina / Israele

Il mare c’è, ma non si vede da qui

Pare che l’uomo, con la guerra, abbia voluto porre limiti anche al mare. Ma non c’è riuscito: il mare c’è. È là anche quando non si vede: è quella striscia di infinito e di possibilità sulla quale un popolo è ancora idealmente libero di navigare. Riflessioni di un casco bianco.

Scritto da Laura Conti

Il mare c’è, ma non si vede. Certi giorni, quando il cielo è chiaro, lo puoi anche scorgere. È quella striscia d’argento che ti sorride da lontano, illuminata dal sole, o quello sbuffo di blu che ti saluta nel meriggio. È là, dove al sole piace morire ogni notte.
“Il mare è là”. È quello che mi dicono spesso gli amici palestinesi quando guardo il panorama. Ma anche i panorami, qui in Medio Oriente, hanno un significato molto diverso. Non sono infatti una semplice armonia fra natura, cielo ed edifici. Puoi leggervi le tracce dell’occupazione militare israeliana. Quel muro in alto a destra, è la barriera di separazione tra Israele e i Territori. Quelle case bianche, tutte uguali, linde deserte, in realtà sono un insediamento israeliano, tra l’altro illegale secondo81) le leggi internazionali e l’ONU.

Da fuori, dall’Italia, l’idea di Palestina ed Israele è quella di due blocchi distinti e separati, dove la gente litiga, si odia. Da una parte o dall’altra. In realtà è tutto più complesso. Se guardi il panorama attentamente ti trovi davanti ad un ‘Picasso’ dalle linee incisive e violente. In pratica stai guardando la West Bank, ma fra basi militari e colonie israeliane, non ne sei poi più così sicuro.
Tornando al mio amato mare (amato perché ho vissuto per 23 anni a stretto contatto con esso), sto constatando che anche questo spazio che dovrebbe essere libero, senza bandiere, è oggetto di contese. Anche il mare è una vittima di guerra.

Da Betlemme a Gerico (dove c’è il mar Morto)

la distanza è di 45 km , da Gerusalemme a Tel Aviv (dove invece c’è il Mediterraneo), ce ne sono 59. Soltanto che per andare dalla Città Santa alla metropoli israeliana ci vogliono 40 minuti di autobus, per arrivare da Gerico a Betlemme ci vogliono da un’ora e mezza a due ore. Questo ‘miracolo geografico’ è dovuto ai checkpoint ed ai blocchi stradali, le deviazioni che un palestinese incontra per recarsi a mare.Ma ciò che più mi ha colpito, arrivando al mar Morto il giorno di Pasqua, è stato il fatto che il lido era gestito da israeliani e frequentato da Israeliani. Ma, non siamo nella West Bank? E mi hanno pure fatto pagare! (io sono per la politica del ‘mare gratuito’). La storia di questo conflitto è dettata da un qualche architetto folle che con le forbicine ha ritagliato questa terra. Ma è un taglio da bambini, da chi vuole la fetta più grande.
Stare in quella spiaggia non mi faceva sentire granché al sicuro. La torretta militare distante pochi chilometri era un chiaro segnale dell’onnipresente occupazione. Ma come fa la gente a farsi il bagno, ricoprirsi di fango, i famosi fanghi del mar Morto, senza accorgersi del filo spinato e del cemento distanti un chilometro o due?

E dove vanno i palestinesi al mare? C’è una spiaggia anche per loro. Ma possono andarci solo in determinati giorni. Tuttavia, è strano che abbiano ‘la concessione ‘ di andare a mare nella loro terra, quando di fatto sarebbe un loro diritto.

Reena, una ragazza di 22 anni, di Beit Sahour mi racconta: “Quando ero piccola c’erano le piscine costruite dagli israeliani. Pagando qualche shekel (5,5 Shekel= 1 euro) entravamo tutti: palestinesi o israeliani. Dopo la seconda Intifada non c’è stata più questa possibilità. Per questo quando vado in Giordania, dai miei zii, sono contenta di poter stare in spiaggia, in libertà”. Ironia della sorte, si tratta dello stesso mare che c’è nei Territori Palestinesi. Cambia solo il lato.Il Mediterraneo, dall’altra parte, non è meno irraggiungibile del mar Morto per i palestinesi.
Mi viene in mente ciò passeggiando placidamente sul lungo mare di Tel Aviv, dove due ragazzi si sfidano con i racchettoni, un paio di fanatici della linea sudano correndo al ritmo del loro i-pod, una ragazza sfoggia il suo topless, e un paio di bambini costruiscono fortezze che le onde sapranno cancellare. A pochissimi chilometri, sullo stesso mare, si affaccia la Striscia di Gaza, una prigione a cielo aperto dove negli ultimi mesi sta esplodendo un conflitto fratricida senza precedenti.

Il mare è buono, generoso. Ce lo insegna la tradizione della pesca, radicata in tutti i popoli del Mediterraneo. Peccato che, come per tutte le azioni dell’uomo, alla guerra piaccia lasciare il suo marchio.
Lo scorso marzo, secondo il PCHR (2), sono stati feriti 3 pescatori dalle navi da guerra israeliane, sulla costa di Khan Younis (Striscia di Gaza). Questo non è un caso isolato. Dal giugno 2006, ovvero da quando è scomparso il soldato israeliano Gilad Shalit, sequestrato da un gruppo palestinese sconosciuto, l’esercito della “stella di Davide” ha cominciato ad ostacolare la pesca lungo tutta la costa di Gaza. Lo sbocco sul mediterraneo palestinese, dunque è controllato dalle navi israeliane, il porto è stato chiuso anni fa e non più riattivato. Le spiagge sono diventate uno dei luoghi meno sicuri per i civili. Basti pensare ad eventi quali la strage del 10 giugno 2006, a Beit Lahya dove 7 persone (tutte appartenenti alla stessa famiglia) hanno perso la vita e 32 sono state ferite(3).

Perché la gente continua a prendere la barca e salpare pur essendo facile bersaglio dei missili o delle pallottole? Due parole: fame ed ostinazione. Fame di cibo, ma anche di normalità, ed ostinazione nel voler continuare a vivere. Anche se ipoteticamente, qualche coraggioso, riuscisse a pescare abbastanza pesce da poterlo smerciare, la cosa non sarebbe comunque fattibile.
Immaginate un carico di pesce che da Gaza arriva in Cisgiordania. Pur dovendo percorrere 133 km (come da Messina a Catania), per passare i checkpoint, se li riesce a passare, ci impiega dalle 8 alle 10 ore I( da Messina a Catania c’è un ora e mezza, cinquanta minuti se guida mio fratello). Il risultato è poco distante da quello del “pesce con tre occhi” che ogni tanto compare negli episodi dei Simpson: vi dico soltanto che il pesce di Gaza ha intossicato uno dei caschi bianchi in Palestina l’anno scorso. Risultato: l’unico pesce disponibile nei Territori è quello surgelato esportato da Israele.“Il mondo è una tastiera troppo grande per essere suonata da un uomo solo” diceva il Pianista sull’oceano del romanzo Novecento di A. Baricco guardando la costa dal mare. La terra, con tutte le sue complicazioni sembra indecifrabile di fronte alla semplicità del mare.
Che tristezza che mi fa a volte l’umanità. Guardalo, l’uomo con le sue costruzioni ideologiche, con la guerra, le barriere, gli edifici militari, le regole, ha cercato di catturare, o addirittura cancellare il mare. Ma non c’è riuscito: il mare c’è. È là anche quando non si vede: è quella striscia di infinito e di possibilità sulla quale un popolo è ancora idealmente libero di navigare.

Note:1. Quarta Convenzione di Ginevra
2. Palestinian Center for Human Rights
3. Fonte: BBC.com

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