Caschi Bianchi Perù

Ayacucho: le celebrazioni della Semana Santa nei suoi aspetti religiosi e profani.

La cosa che piú mi ha colpito e affascinato è che la Semana Santa riesce a riunire e a rendere partecipe dell’evento l’intero popolo ayacuchano

Scritto da Annalisa Bianchin, Casco Bianco ASPEm

Ayacucho é una città della Sierra Centrale, a 8-9 ore di curve da Lima (Perù), conosciuta principalmente per due ragioni: é lí che sul finire degli anni ’70 si é costituito il movimento rivoluzionario maoista Sendero Luminoso ed é lí che si celebra la Semana Santa (Pasqua) piú caratteristica del Perú. Ed é proprio questo secondo aspetto che ho avuto modo di conoscere in questi giorni. Sono partita da sola, giovedí sera, consapevole di rimanerci troppo poco visto che gli autobus affollati mi hanno costretto ad un ritorno anticipato, facendomi perdere lo mejor, ovvero la principale processione della Resurrezione del Cristo, domenica al sorgere del sole.
I tre giorni di permanenza comunque sono stati sufficienti per assaporare l’atmosfera di festa e solennità che caratterizza la città e i suoi abitanti. La cosa che piú mi ha colpito e affascinato è che la Semana Santa riesce a riunire e a rendere partecipe dell’evento l’intero popolo ayacuchano. C’é l’aspetto liturgico, scandito dal ritmo delle processioni e delle messe, che ripercorre gli avvenimenti della Passione di Cristo, dal venerdí della Passione in cui il Cristo crocifisso e agonizzante viene accompagnato dalla Madonna verso il Calvario, alla domenica delle Palme, in cui Gesú entra a Gerusalemme e viene accolto dal popolo con palme ed ulivi e proclamato Re. Gesù, dopo essere stato torturato e flagellato dai soldati romani e condannato dal popolo, il mercoledí incontra la Madre. Segue il venerdí Santo, giorno della morte di Cristo, che ad Ayacucho si celebra con una processione notturna nel corso della quale vengono spente tutte le luci della piazza mentre il popolo ayacuchano, in abito nero, accompagna il Señor e la Virgen Dolorosa portando in mano candele accese in un’atmosfera di oscuritá, silenzio e raccoglimento attorno alla figura del Cristo morto. Gli unici suoni: il canto dei cori nella lingua locale quechua, che dai vari balconi della piazza accompagna la processione e il suono mesto delle bande. In realtá, mi spiega un’amica antropologa di origine ayacuchana, i canti in quechua sono una traduzione dal latino e sono frutto di un sincretismo linguistico: i fedeli cantano infatti Apu Jesus Cristi ed Apu sta a significare il Dio della Montagna, ovvere il dio incaico, la cui origine in realtá rimanda ai tempi anteriori alla nascita di Cristo. Il Sabato Santo é giorno di preghiera, digiuno e silenzio: le campane e la musica tacciono e la comunitá cristiana si raccoglie attorno al sepolcro. E finalmente arriva la Domenica della Resurrezione, felice conclusione per i fedeli del dramma della Passione. L’evento viene celebrato con una processione all’alba. Si tratta di una chiara metafora della rinascita, del sole che sorge, la luz sobre la oscuridad, la vita che prevale sulla morte; 300 fedeli trasportano, percorrendo il perimetro della Plaza Mayor, una piramide di proporzioni straordinarie composta da candele accese, pannocchie e fiori di cera. É l’unico momento in cui chiunque puó portare il trono (el anda), visto che durante il resto della settimana solo certe persone hanno quest’onore (si tratta degli hermanos cargadores, fratelli trasportatori, che appartengono a diverse confraternite della chiesa cattolica). Dire che chiunque puó portare il trono in realtá non é molto appropriato visto che in realtá si tratta di persone che vengono da paesi e cittá dei dintorni di Ayacucho (e non solo) che sono state segnalate dalle proprie chiese come persone moralmente degne a svolgere tale compito e che sono state quindi designate cargadores. Anche qui emergono degli interessanti elementi sincretici: la piramide tronca, adornata con candele, pannocchie e fiori di cera, riprende la forma delle piramidi incaiche, le pannocchie stesse sono un simbolo evidente della pachamama, la madre terra, e lo stesso Gesú circondato dal sole sta a rappresentare il Dio del Sole, l’Inti, il Dio piú importante nella cultura incaica. La pannocchia, detta choclo, rappresenta la base della cucina locale consumandosi praticamente in tutto il paese nonostante vi siano molte differenze culinarie nelle diverse regioni. Esistono diverse varietà e colori di choclo. Forse il più particolare é uno di color viola scuro, quasi nero, usato per produrre una bibita fredda dal gusto dolce aromatizzata con chiodi di garofano, limone e succo di ananas chiamata chica morada.

Pur sentendomi lontana dalle funzioni liturgiche della Semana Santa della quale in Italia ho sempre colto solo l’aspetto della vacanza, in questo paese situato sulla Ande peruviane, a 2700 metri di altitudine, sono stata comunque toccata dall’atmosfera di solennitá e commozione che caratterizza la comunitá cristiana ayacuchana.
Resta poi, molto importante il lato festoso della Semana Santa, caratterizzato da una generale atmosfera di ebbrezza. Infatti la Piazza e le strade pedonali del centro si riempiono di gente di ogni etá che passeggia, compra le piú svariete cose offerte da venditori ambulanti dalla creativitá invidiabile, assaggia altrettante leccornie tipiche della zona che vanno dai gelati al gusto di arachidi, latte e anice, ai biscottini secchi, alle mele caramellate, dolcissime e dal colore fluorescente; leccornie, queste, vendute lungo i lati della piazza da donne con i vestiti tipici e i cappelli bianchi e neri a falde larghe. La cittá si anima e apre le porte delle casonas (antiche residenze in stile coloniale dall’ampio patio interno) ai turisti che vengono da tutto il Perú, moltissimi i limeños (gli abitanti di Lima) con parenti ad Ayacucho e dintorni. Le casonas accolgono per l’occasione mostre ed esposizioni di ogni tipo: dai tessuti caratteristici alle maschere locali, dalla mostra di fotografie sulla violenza di genere promossa dall’Agenzia Spagnola di Cooperazione Internazionale alla mostra del pittore locale sul tema della pobreza (povertà). Tutto rigorosamente gratis. E la gente passeggiando e chiacchierando ha la possibilitá di osservare e conoscere forme di espressione artistica e culturale. Parlando con alcuni giovani locali, ho avuto modo di verificare che hanno un atteggiamento critico verso la vita culturale locale caratterizzata dalla mancanza di spazi per esprimersi e riunirsi e in generale dal fatto che no hay mucho que hacer nonostante la presenza dell’universitá.
Ed é a questo proposito che l’incontro con Alex, un ayacuhano che lavora da 10 anni per l’Agenzia Spagnola di Cooperazione, mi offre la possibilitá di conoscere da vicino un progetto culturale interessante che sta prendendo piede a Huamanga, la zona della cittá che si raccoglie attorno alla Piazza Principale. L’idea e la sfida che ci si propone, attraverso il progetto, é quella di creare uno spazio in cui l’intera comunitá possa esprimersi attraverso diverse forme artistiche – musica, teatro, danza, disegno, pittura e fotografia – nel tentativo di favorire l’incontro tra la cultura e le tradizioni locali e le forme artistiche sperimentali e di avanguardia che hanno cominciato a svilupparsi nella capitale. Questo per cercare di decentralizzare il movimento culturale che c’é a Lima e promuovere lo scambio culturale. L’idea é quindi quella di recuperare, tecniche, strumenti, artisti e forme artistiche in generale che ad Ayacucho sono in via di estinzione. Infatti, in passato, mi spiega Alex, Ayacucho era la culla dello scambio culturale, in quanto si produceva l’arte tradizionale con l’utilizzo di tecniche e strumenti artigianali che oggi stanno quasi scomparendo. Ritengo che sia insensato applicare un modello artistico dalla capitale ad Ayacucho, per una serie di specificitá sociali, storiche e culturali che rendono le due realtá distinte, e personalmente penso che sia molto interessante riuscire a coniugare modernità e tradizione, coinvolgendo la popolazione locale.

La cittá si anima poi con fiere di prodotti locali, agricoli ed artigianali, gare ed esibizioni di danza folklorica, concerti di musica locale, manifestazioni equestri e il famoso Pascua Toro. Il Pascua Toro si svolge nell’arco del sabato e ricorda per certi aspetti la festa di San Fermines a Pamplona, in Spagna. Protagonisti della festa sono infatti i tori anche se i giovani alquanto borrachos che vi partecipano vivono il loro momento di gloria sentendosi protagonisti. Il Pascua Toro inizia il venerdí sera con il cosiddetto Vela Toro. Con il pretesto di vegliare i tori che il giorno successivo correranno per le strade della cittá si improvvisano feste, canti e balli attorno a piccole fogatas (fuochi) nella zona dell’Alameda, pochi isolati piú a sud dal Mercado Central. La mattina successiva c’è la cerimonia dello Jala Toro, (dal verbo jalar che significa tirare). Signori a cavallo conducono, tirandoli per una corda, i tori che percorrono alcune strade della cittá mettendo in fuga le persone che vi passeggiano tranquillamente. Agganciare il toro per le corna sembrerebbe una cosa facile, che i cow boys del Far West riuscivano a fare al primo colpo con estrema disinvoltura, ma vi assicuro che dopo varie bottiglie di birra e tragos de caña (una specie di grappa ottenuta dalla canna da zucchero), non è una cosa semplice… Poi, una volta che il toro é agganciato, segue il rituale della benedizione. Il cosiddetto ariero – colui che lo ha ”intrappolato” – rovescia un bicchiere di caña e sputa della birra sulla testa del toro; seguono delle frustate sul dorso per farlo agitare mentre dei musicisti, rigorosamente borrachos, suonano la huajrapuca, una specie di corno arrotolato che emette un suono malinconico. Dicono che quel suono piaccia al toro e che in qualche modo lo tranquillizzi. Non chiedetemi perché prima lo agitano e poi lo tranquillizzano. Si tratta dei controsensi peruviani! Dopo di ché viene aperto il cancello e il toro sfreccia in mezzo alla folla trascinato dal cavallo; sicuramente per il fatto di essere legati per le corna ed essere liberati uno alla volta la corsa é meno folle e pericolosa di quella di Pamplona, dove invece i tori sono liberati in gruppo e corrono per le strade senza nessuno che incanali la loro corsa. Ma mentre a Pamplona tutte le strade laterali rispetto alla principale sono blindate come anche i negozi, ad Ayacucho non solo é tutto aperto ma anche i negozi e i ristoranti lungo la strada continuano la loro frenetica attivitá, mentre donne, anziani a bambini passeggiano, chiacchierano e giocano per strada. Solo quando da lontano si comincia a scorgere una massa informe di corpi rossi e bianchi che corre – molti dei quali reduci dalla notatta in bianco velando i tori – allora ci si premura di spostarsi ai bordi della strada o di infilarsi dentro qualche negozio, cogliendo frasi quali hijito ven aqui que llega el toro, mamá cuídate o rápido quítense . Il tutto accompagnato da grida e grossi sorrisi.
Cosí si trascorre la mattinata del sabato scappando dai tori o correndogli dietro, bagnandosi di acqua e birra per sopportare il calore dei 2700 metri, ballando e scoperchiando una pachamanca cucinata alla maniera tradizonale. La pachamanca é un tipico piatto della Serra, preparato scavando una buca nella terra, riempiendola di carni, patate, fave, tamales e pietre ardenti e ricoprendo il tutto di terra: un forno sotto terra che in un’ora regala un piatto ricco e squisito dal sapore della terra e della pietra affumicata. Ogni tanto i piú alticci si azzuffano e litigano per questioni di bottiglie di birra sottratte ingiustamente sulle quali colui che finge di essere il piú sobrio tenta di far valere il ”diritto di proprietá”. Questo della borrachera molesta me l’hanno detto in parecchi: dicono che il serrano (giusto per non cadere nello stereotipo!) diventi particolarmente molesto e violento quando eccede con l’alcool, arrivando a isolarsi dal mondo che lo circonda per focalizzarsi esclusivamente sulla bottiglia. Oltre ai borrachos molesti che peró se la sbrigano tra di loro, l’altro inconveniente della Semana Santa ayacuchana sono i rateros, ovvero i ladri. Una autoritá dal balcone di una delle casonas della piazza esortava a tener mucho cuidado a sus pertenencias visto che sono molti i rateros che si camuffano da qualsiasi tipo di persona: ratero-jalatoro, ratero-vendedor de manzanas dulces, ratero-musico, ratero-mayordomo , etc. A questo proposito sono arrivata a dubitare persino dello stesso signore che parlava al microfono, lo speaker-ratero! Nonostante tutto mi é andata bene, son tornata a casa con todas mis pertenencias, anzi in realtá con molte piú cose visto l’attacco di acquisto compulsivo di cui sono stata vittima nel pueblo di Quinua, famoso per le sue ceramiche.
Un’altra cosa che mi é molto piaciuta di Ayacucho é la cucina locale. Me ne avevano parlato ma non pensavo fosse cosí buona. Ce n’é davvero per tutti i gusti, anche se i vegetariani si troverebbero forse in difficoltá. Oltre alla pachamanca, si trova la puca picante (stufato di manzo con patate in salsa di arachidi e barbabietola), il mondongo (zuppa di cereali, peperoni e menta con maiale o manzo), il patachi (zuppa di grano con vari tipi di fagioli), i chicharrones (maiale fritto nel suo stesso grasso, di una leggerezza unica) e il famoso cuy, il povero porcellino d’india servito intero e spiattellato come se l’avessero appena passato sotto ad una pialla. Sí, decisamente un vegetariano farebbe la fame o sarebbe contretto a lanciarsi sulle wawas. La wawa, che in quechua significa bambina, é un pane dolce, con qualche uvetta e dal sapore d’anice. La forma e il sapore ricorda la pupa abruzzese che mi preparava per Pasqua la mia nonna, appunto a forma di bambina per le bambine e di cavallo per i bambini.
Sempre parlando di cibi e prodotti tipici, il Mercato Central vicino al quale ho trovato alloggio é davvero la fiera del gusto e degli odori. Entrando dalla parte alta, che si affaccia sulla Chiesa di Santa Clara, si attraversa un corridoio di formaggi, fiancheggiato da puestecitos di giocattoli, scarpe e prodotti per la casa, si accede poi al cuore del mercato diviso, secondo un criterio non ben definito, in zone. La zona delle carni, rigorosamente appese ai ganci, sanguinanti e con le mosche che vi girano attorno, la zona del pane (il chapla, anch’esso con semi di anice) e delle wawas, la zona della artesanía locale, piena di statuine e presepi di pietra di Huamanga , di tessuti e retablos (piccole e colorate scatoline in legno che raffigurano scene religiose), di borse e casacche di lana, la zona della frutta e verdura, quella dei piatti caldi sempre affollatissima a qualsiasi ora (sì, perché in Perú si mangia a tutte le ore!) e la zona dei jugos (ricchissimi frullati di frutta fresca, spesso arricchiti con uova, maca – un tubero dall’effetto energizzante – e birra!).
Poi Ayacucho per me ha significato anche l’incontro con la famiglia di Alex, il famoso ayacuchano che vuole sfidare il tradizionalismo della sua cittá con il progetto di un centro culturale. Alex ha 28 anni, parla quechua, come tutti i suoi fratelli. Vive da 10 anni a Lima ma il progetto del centro culturale l’ha portato a prendere la decisione di ritornare ad Ayacucho e di restarvici, abbandonando quella vita che in 10 anni si era costruito nella capitale. Essere invitata a pranzo a casa de los abuelitos (nonni), ha rappresentanto per me la possibilitá di conoscere piú da vicino le conseguenze della guerra civile sugli abitanti di quella zona della Sierra. Los abuelos di Alex avevano un terreno enorme che sono stati costretti ad abbandonare quando, negli anni ’80, le loro vite erano seriamente minacciate dalla presenza di Sendero Luminoso. Quando poi sul finire degli anni ’90 vi hanno fatto ritorno hanno trovato il loro terreno occupato. Spesso, mi spiega Alex, erano i senderisti che occupavano i terreni dei campesinos e una volta che ció avveniva neanche reclamandoli con un titolo di proprietá si potevano riottenere. Qualsiasi opposizione e ostacolo all’avanzata di Sendero poteva essere pagata con la vita. Inoltre molti non possedevano alcun titolo di proprietá, la casa o il terreno gli spettava perché era dei genitori, e prima dei nonni e dei bisnonni. In linea con l’informalitá peruviana, non vi era nulla di scritto. Quindi, abbandonando l’idea di potersi riprendere tutto il terreno, hanno deciso di concentrare le loro energie su un pezzo di terreno che aveva un particolare valore simbolico ed affettivo, il terreno in cui sorgeva e tutt’ora sorge una antigua higuera, un albero di fico formato da due tronchi che si aprono lasciando giusto lo spazio per una panca, sulla quale quattro generazioni di parenti hanno posato davanti a macchine fotografiche antiche per foto-ricordo, rigorosamente in bianco e nero. Quella higuera rappresenta parte della memoria storica di quella famiglia, non é solo un albero, é molto di piú: un punto di incontro, di conversazione e contemplazione e, sicuramente, un punto di allegre borracheras plurigenerazionali. E per continuare con la tradizione anche noi, insieme a zii, prozii, cugini di primo, secondo e terzo grado abbiamo chiacchierato e fatto foto accompagnati da una cassa di cervezas.

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