Caschi Bianchi Zambia

Discariche di uomini

La vita degli ultimi fra gli ultimi. Una visita alla discarica di Ndola rivela le condizioni drammatiche di sopravvivenza di coloro che sono costretti dalla miseria, per vivere, a cercare fra i rifiuti.

Scritto da Luca Previti, Casco Bianco a Ndola

Sono andato alla discarica. È pomeriggio, insisto per andarci, il nostro autista dice che lì ci sono crazy boys (ragazzi pazzi n.d.r. ). Ci scherziamo su, ma lui non è tanto contento di andare.
Ce ne dovrebbero essere due, di discariche, almeno quelle di cui riesco a recuperare informazioni da alcuni dei nostri operai e dal nostro reticente autista. E voglio vederle entrambe.
La discarica è un posto all’aperto dove le compagnie private depositano i rifiuti raccolti dalle case in cui svolgono il servizio. Nessuna montagna mastodontica di rifiuti, solo una campagna disseminata di sporcizia di ogni tipo. Appena ci inoltriamo nella boscaglia, si apre davanti a noi una specie di viale accidentato con pozze di fango e di segatura proveniente da una vicina falegnameria.
 Incontriamo un primo gruppo di ragazzi grandi, che rovistano in un mucchio, qualcuno mastica qualcosa dall’aspetto poco salutare, forse proveniente dalla pozza stagnante accanto alla quale gli altri rovistano tra i rifiuti. Probabilmente loro sono lì per cercare qualcosa di commestibile e tirare fuori ogni tipo di avanzo.
Ad un certo punto ci fermiamo: “É impossibile andare avanti con il pulmino”, mi sento dire con voce un po’ trionfante: scendo, e decido di andare avanti a piedi.
Ai bordi del sentiero dissestato si presentano i primi gruppi di rifiuti, in lontananza appaiono alcuni ragazzi che armeggiano con dei bastoni in mezzo alla poltiglia, altri che aspettano il mio arrivo in mezzo alla strada, altri che si fermano e mi guardano. Nugoli di mosche scuriscono l’aria al mio passaggio, una cavalletta gigante mi salta sul petto. Spuntano altri ragazzi dall’erba alta e dai rami degli alberi allestiti a rifugio, sacchi di plastica in spalla. Continuo, mentre dai cespugli e dalle cenge spunta sempre più gente. Dietro la curva si apre una specie di valle disseminata di rifiuti, tagliata al centro dalla strada. Spuntano come sciacalli, lo sguardo sperso e gelatinoso, la faccia sfatta. Allungano il collo lanciandomi delle occhiate: una specie di accampamento di netturbini della miseria.
Da un’altura mi raggiunge un uomo, non ha il volto sfatto. Mi dice qualche parola, il suo discorso è lucido. Mi chiede cosa faccio. E si propone di farmi da guida, di raccontarmi il posto. Passeggiamo tra la spazzatura come due che vanno a prendere una birra al bar. Gli dico che sono venuto a vedere il luogo, la gente. Si offre di spiegarmi come la gente vive qua, mi parla della sua sofferenza, ma le sue parole non risultano pietose o tali da suscitare commozione, come quelle che ho sentito spesso in bocca ad altre persone. Sembrano solo voler spiegare l’esatto stato delle cose.

Dal suo aspetto e dal modo di porsi risultano una compostezza e una dignità che lo fanno apparire semplicemente sincero: non elargisce fiumi di parole a sostegno della causa, non snocciola facili discorsi di convenienza, e per questo mi ispira fiducia. Chiedo cosa facciano qui, se vendano la plastica o l’altro materiale che raccolgono. Mi dice che il materiale viene venduto negli shanty compounds (baraccopoli n.d.r. ) dove viene usato per fare i tetti. Mi accompagna fino alla fine della discesa cosparsa di mucchi di rifiuti. Non so precisamente cosa dire: lui mi chiede se sono venuto con qualche idea, ma gli restituisco parole incerte, gli racconto che la comunità ha una azienda agricola dove lavorano ragazzi di strada, molti dei quali prima di essere recuperati frequentavano questa discarica, e guardandomi intorno noto che c’è anche gente adulta dallo sguardo spento.
Mi dice che non c’è lavoro, che non ci sono possibilità. Cosa dovrebbero inventarsi, cosa dovrebbero tentare, creare? Lo capisco, ha ragione. Questa gente è giustificata. Siamo noi che non abbiamo nessuna giustificazione per giudicarli, per condannare qualcuno perché non è riuscito a farsi la propria vita.

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