Bolivia Caschi Bianchi

DIPENDENZA E LIBERTA’

“Ti ritrovi a camminare lungo una fune. Da un lato c’è la voglia e il desiderio di aiutare, dall’altro c’è la consapevolezza che l’essere umano è libero”, così Lisa ci racconta il delicato gioco di equilibri che sperimenta stando in relazione con persone che soffrono di dipendenza

Scritto da Lisa Lorenzon, Casco Bianco in Servizio Civile con APG23 a La Paz

Dipendenza e libertà. Un ossimoro, due parole così distanti che il vocabolario Treccani indica tra i Sinonimi e Contrari. Eppure, per tutte le persone che per un motivo o per l’altro si ritrovano ad avere a che fare con l’alcol e la tossicodipendenza, sono due concetti che devono trovare un modo di venire integrati. Io l’ho potuto sperimentare in due contesti molto diversi: a Mestre, in Italia, dove lavoravo come Operatrice di Strada di Riduzione del Danno con persone che consumano droghe, e a La Paz, in Bolivia, come volontaria del Servizio Civile nella Comunità Terapeutica “San Vicente”, rivolta a uomini maggiorenni con dipendenza da alcol o da altre sostanze stupefacenti. Ti ritrovi a camminare costantemente lungo una fune. Da un lato c’è la voglia e il desiderio di aiutare, c’è il vedere la potenzialità dell’altro, i suoi punti di forza e la sua bellezza, c’è il supportare la motivazione al cambiamento, nello scegliere di condurre una vita differente. C’è il vedere come si modificano i tratti del viso nello scorrere del tempo passato in Comunità Terapeutica senza consumo, il notare il miglioramento nel modo di esprimersi, di giocare a calcetto, di partecipare alla vita quotidiana, c’è l’essere parte di quella che non riesco a fare a meno di descrivere come una forma di rinascita. Poi c’è l’altro lato della fune: la consapevolezza che l’essere umano è libero. È facile pensare di lanciarsi direttamente nel primo lato, è ciò che viene più spontaneo a chiunque. È anche la forma più immediata di amare, nel suo senso più ampio, l’altra persona. Ma per avere a che fare con chi ha una dipendenza questa forma non basta, e se ci si ferma a pensare un attimo, non basta per nessuno. La parte difficile è quella di trovare il modo di amare quando l’altro ricade, quando decide di seguire con la vita di strada, quando torna alla sua vita di prima.

Questo testo è appeso sulla porta dell’ufficio del Drop In di Mestre. Nei mesi super intensi di turni di Unità di Strada ho cercato di farlo mio, rendendolo la linea guida da tenere sempre a mente nel lavoro e nella vita. Credo profondamente che la parte più bella dell’essere umano stia proprio in questo: “le persone non sono di nessuno”. La meraviglia di lavorare con la dipendenza è che ti rendi conto che puoi desiderare quanto vuoi di “salvare” l’altro, puoi immaginare il futuro più bello del mondo per quella persona, ma ciò che decide di compiere nella vita sarà sempre una sua scelta.
Come nel caso della storia di L., beneficiario della Comunità Terapeutica “San Vicente” di La Paz. L. è un giovane uomo pieno di talenti, intelligente, capace, responsabile e gran lavoratore. Quando sono entrata per la prima volta in Comunità lui era appena tornato a svolgere per la seconda volta il percorso terapeutico. Dopo diversi anni di sobrietà, aveva infatti ricominciato a bere in seguito a un evento molto doloroso. Me lo ricordo molto bene in quei primi tempi: se ne stava in disparte senza parlare con nessuno, le sue labbra stavano costantemente contratte quasi in una smorfia, o al massimo a formare una linea dritta che però mai si inclinava all’insù. Parlava molto poco e a volte neanche rispondeva ai saluti.
Io, d’altra parte, a mala pena riuscivo a dire due parole in croce di spagnolo. Apparentemente una conversazione tra di noi sembrava impossibile. Ci sono persone che ci arrivano in modo diverso, spesso non sappiamo neanche noi perché. Anche senza comunicarci quasi nulla verbalmente, sapevo che in qualche modo avremmo legato. E così è stato, tra le sue prese in giro per i miei primi tentativi di imparare la lingua, i primi sorrisi e le risate, il suo impegno nel seguire la classe di italiano che svolgevo, la sua curiosità, le domande, e raccontare infine qualcosa di sé. Abbiamo condiviso quasi ogni giorno della vita nella CT per circa 8 mesi, l’ho visto cambiare modo di approcciarsi alle persone, diventare più gentile, più empatico, più aperto verso il mondo esterno. Ricordo ancora lo stupore di una collega dell’altra Comunità presente in città venuta a condividere il pranzo da noi: “Oh, è successo qualcosa di incredibile. Ero seduta vicino a L. e mi ha parlato tutto il tempo!”. In questi mesi era diventato il punto fermo, un supporto alla Comunità, per i lavori manuali di ristrutturazione che fin dal primo giorno ha portato avanti, per riordinare tutti gli spazi di cui a turno diventava responsabile, per condividere con i più nuovi la sua esperienza. Una della cose che più mi piaceva di L. è che guardava sempre avanti e sognava in grande. Raccontava che avrebbe voluto aprire un’impresa sua, un ristorante, in cui, perché no, mescolare piatti boliviani a quelli italiani che gli avevano insegnato a cucinare. Voleva girare il mondo e imparare sempre cose nuove. Le risorse per fare tutto questo le ha, e chissà se riuscirà a raggiungere questo futuro che tanto desiderava. Io glielo auguro con tutto il cuore, anche se probabilmente non saprò più niente di lui. L’ultima volta che l’ho visto è stato quando è passato fuori dall’appartamento dove viviamo io e N. a salutarci prima di andarsene per la sua strada, dopo aver lasciato la Comunità Terapeutica per aver ricominciato a bere durante un’uscita approvata dall’equipe. In quel momento era uscito dalla struttura da circa dieci minuti e aveva già una bottiglia di alcol puro in mano, che qua in Bolivia è particolarmente diffuso perché ti permette di ubriacarti facilmente ad un prezzo molto basso. Abbiamo parlato per tanto tempo, fino a quando non era più sufficientemente lucido per mantenere una conversazione e ci siamo salutati. È stato molto forte e molto doloroso. La parte più dura è stata realizzare, mentre parlavamo, che quando se ne sarebbe andato avrebbe continuato a bere in strada e io non potevo fare nulla per evitarlo. Durante tutto il giorno non ho fatto altro che pensare a lui, a tutto quello che avrebbe potuto fare, ai suoi progetti e ai sogni che da un momento all’altro vedevo svaniti. Porterò L. sempre dentro il cuore, ricorderò sempre la bellissima persona che è e che nessun evento o decisione della sua vita cambierà mai: la sua forza, le sue sofferenze, il suo umorismo un po’ balordo, le sue contraddizioni, la sua storia, la sua luce e le sue ombre. Gli sono grata per avermi permesso di conoscerlo un po’ e di condividere questo pezzo di strada assieme.
Scegliere di esserci, appoggiare anche le decisioni che ai tuoi occhi sono le più insensate, non giudicarle, accettare l’altro nella sua complessità e nelle sue ferite più grandi, è una forma di amore meno spontaneo, meno facile. Necessita un lavoro su di sé, implica il guardarsi dentro e perdersi, significa accettare i propri limiti, provare emozioni difficili e contrastanti. È un insegnamento gigante, perché impariamo che amare significa amare ciò che l’altro è, non ciò che potrebbe essere. Ma al contempo lavorare nell’ambito della cura e della salute significa avere la capacità di vederla questa potenzialità e starci, assieme con l’altro, cercando di immaginarla assieme.

Non è facile camminare su questa fune, non è facile trovare un equilibrio nella complessità, formare una coerenza in qualcosa che apparentemente non ce l’ha. Un grande aiuto me l’ha dato S., ex Casco Bianco tornata quest’anno a La Paz per continuare a lavorare in Comunità Terapeutica da operatrice. In un mio momento di crisi mi disse che noi abbiamo l’enorme privilegio di affiancare le persone che incontriamo lungo un pezzo del loro cammino, di fargli vivere in alcuni casi esperienze che mai avrebbero potuto sperimentare, di condividere una parte della loro quotidianità fuori dal consumo di sostanze. Alla fine, anche questo è un insegnamento che vale per la vita: ognuno condivide con le altre persone del mondo un pezzo della propria strada, in alcuni casi solo per pochi passi, in altri per molti anni di cammino. Quello che rimane da questo incontro è ciò che di noi ha risuonato nell’altro in quel momento del suo percorso. Tutto ciò che non risuona non verrà preso in considerazione, tutto ciò che risuona potenzialmente porterà a delle decisioni differenti. Questo è lo spazio del possibile, fin qua ci possiamo spingere. Questo è rispettare la straordinarietà del cammino di ognuno di noi, questo è vivere e lavorare con la delicatezza, ma anche la tenacia, dei fili d’erba.
“Le persone sono complesse: hanno lati che non conosci, hanno comportamenti mossi da ragioni intime e insondabili dall’esterno. Noi vediamo solo un pezzetto piccolissimo di quello che c’hanno dentro e fuori. E da soli non spostiamo quasi niente. Siamo fili d’erba, ti ricordi?”
(Strappare lungo i bordi, Zerocalcare, 2021)

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