• Cb Apg23, 2008

Caschi Bianchi Tanzania

Sanità in Tanzania

Intervista a Mario Battocletti, medico chirurgo di “Medici con l’Africa – CUAMM” da due anni in Tanzania. Più formazione per i medici, cliniche mobili, decentramento di strutture e attività verso le periferie: questi alcuni degli strumenti possibili risultanti da un’analisi della situazione sanitaria tanzaniana, realizzata da chi vive sul campo mettendo in gioco la propria vita professionale e familiare.

Scritto da Giuseppe Falcomer

Come descrive la situazione sanitaria in Tanzania?

Il sistema sanitario in Tanzania presenta la classica impostazione di molti Paesi africani e dopo la dichiarazione di Alma Ata del 1978 ha assunto l’approccio della cosiddetta Primary Health Care, ovvero un sistema sociosanitario tendente a soddisfare i bisogni di salute di una popolazione in modo integrale, tenendo conto di tutti i fattori che influiscono negativamente o positivamente su di essa. Le attività fondamentali previste sono la salute materno infantile, compresa la pianificazione familiare, le vaccinazioni contro le più importanti malattie infettive, la diagnosi e il trattamento delle malattie più comuni e i servizi d’urgenza per la chirurgia, la traumatologia, l’ostetricia, il rifornimento di acqua ‘pulita’, l’educazione sanitaria e la promozione della salute.

Questo naturalmente dal punto di vista teorico-politico.
Il sistema è stato strutturato sul modello imposto dai coloni inglesi, che era intelligente per lo meno nella gestione delle risorse: non potendo permettersi molti medici, il sistema sviluppò il concetto degli Assistant Medical Officer. Sono figure intermedie che possono riconoscere e curare in maniera generica molte patologie, con conoscenze certo superiori a quelle degli infermieri ma con alle spalle un percorso di studi di soli tre anni e una preparazione perciò inferiore a quella di un medico. I medici sono impegnativi da formare e necessitano di un investimento di un ingente capitale nel lungo periodo. Inoltre non forniscono la certezza che andranno a coprire i posti scoperti: molti infatti restano nelle grandi città, occupando i posti più remunerativi economicamente.
Gli Assistant Medical Officer attualmente sono le persone che fanno attività di ambulatorio e in alcuni casi anche chirurgia di base e il livello del loro servizio è dovuto solo alla capacità delle singole persone. Alcuni, naturalmente dotati e motivati e in alcuni casi anche grazie al fatto di lavorare a fianco di volontari espatriati hanno ottenuto nel tempo un miglioramento delle loro conoscenze, mentre altri pur avendo un basso livello di preparazione hanno comunque in mano reparti interi.
In Tanzania la situazione è quindi questa: la rete ospedaliera è molto estesa e capillare nel territorio a livello di infrastrutture, ma gli ospedali e i dispensari non sono sviluppati per quanto riguarda le risorse umane e il livello medio curativo è abbastanza basso.
La Tanzania è sempre stata un paese pacifico e non ha mai avuto problematiche di guerra: sarebbe il momento di cominciare a implementare un sistema universitario che cominci a produrre molti più medici preparati. Esistono alcune università e a Dar es Salaam anche alcune specializzazioni con un buon livello di preparazione, ho di recente collaborato con un medico di 28 anni molto capace che ha studiato là, ma il problema è comunque che il numero è ancora esiguo. Dopo pochi mesi di ospedale questo medico è infatti diventato District Medical Officer (una specie di assessore del distretto) in un ospedale di Arusha: un amministratore, coordinatore e programmatore del sistema sanitario e della Public Health. È certo un lavoro importantissimo ma un lavoro d’ufficio: in questo modo un buon medico non è più impegnato a fare diagnosi clinica sul campo e di nuovo il lavoro viene fatto dai quadri intermedi. La mancanza di dottori è palese anche in un capoluogo di provincia come Iringa i cui abitanti nel 1990 erano stati dichiarati essere duecentomila: oggi il bacino di utenza dell’ospedale regionale potrebbe tranquillamente raggiungere il milione di persone e i dottori qualificati sono soltanto due.
L’urgenza di cominciare un serio processo di formazione di figure mediche deriva anche dal fatto che per saturare il mercato di medici, in modo tale che questi comincino a lavorare anche in cittadine un po’ più piccole, ci vorranno venti o trentanni. I primi laureandi vengono di solito assunti dalle cliniche private e dalle NGO che possono permettersi dei salari più alti o vanno all’estero.
Il problema dei salari è molto forte: solitamente quelli degli ospedali governativi sono bassi e non riescono a incentivare i lavoratori. Chi lavora in un ospedale soffre ovviamene dei principali problemi diffusi in Tanzania: il coniuge malato di Aids, la vedovanza con figli a carico e altro. Le urgenze della vita quotidiane assorbono gran parte delle energie ed è difficile quindi poi dare il massimo in corsia o impegnarsi nel miglioramento del sistema.
Un altro punto fondamentale è la differenza della situazione tra le città e le zone rurali.
Ad esempio, la media regionale della mortalità infantile sotto i cinque anni è del 165 per mille. Nei villaggi però raggiunge il 230 per mille mentre nelle città la percentuale è notevolmente inferiore. Stesso andamento segue la mortalità materna.
Chiaramente la città offre più servizi, personale espatriato, più accesso e reperibilità dei farmaci e mediamente più attività economica (quindi anche maggiore possibilità di poterli acquistare). Nelle periferie non c’è niente di tutto questo: solo un avamposto gestito spesso da Community Health Workers con alle spalle solo nove o dodici mesi di preparazione e con a disposizione magari solo i farmaci per la malaria. Ad aggravare la situazione si aggiunge anche la malnutrizione, terreno di base di molteplici malattie e nelle periferie esiste: nei villaggi quindi i bambini si ammalano più gravemente e proprio nei villaggi ci sono meno possibilità di curarli.
Il sistema della Public Health dovrebbe partire rinforzando prima le periferie. Nessun medico però è disposto ad andarci: sei isolato e bloccato, il salario è solitamente uguale o leggermente più alto e quindi tocca ai più giovani ed inesperti che dopo pochi mesi se ne vanno.
Il processo dovrebbe essere opposto: decentralizzare di più i servizi, anche usufruendo di cliniche mobili, e spostare anche beni economici dalla città alle periferie.

La corruzione in Tanzania è estremamente diffusa in ogni settore e in ogni aspetto della vita dei cittadini. Come ha trovato la situazione sotto questo aspetto nell’ospedale dove ha lavorato?

Fuori dall’ospedale c’è una scritta in swahili, Rushua ni adiu (la corruzione è il nemico), ma malgrado le campagna governative il sistema non è cambiato. C’è un paura enorme e non basta invitare le persone a denunciare qualsiasi tipo di corruzione che avvenga.
Soprattutto è la normalità in Tanzania. Ne parlavo con un paziente proveniente da un’altra città: per entrare e avere un posto letto paghi l’infermiere, solo per non essere lasciato per terra o su una barella, poi paghi ancora per avere il consulto con il medico e paghi per avere i farmaci. Prima di andare all’ospedale dei quindi recuperare dei soldi, che comunque nella maggior parte dei casi si rivelano essere poche migliaia di scellini. Recentemente è anche successo che gli infermieri chiedessero quindicimila scellini anche per effettuare delle circoncisioni, che è risaputo debbano essere gratuite. E’ anche nostro compito combattere il problema ma non è facile benché sia assunto in ospedale da due anni. È un fenomeno molto diffuso e si rischia grosso se non agisce con una certa discrezione.
Ogni dipendente si organizza un business personale. I più anziani gestiscono il sistema e inizialmente gli ultimi arrivati devono stare a guardare ma tutti si adeguano presto e cominciano a seguire questa prassi. I lavoratori sanno quando un paziente viene da una famiglia benestante o ricca e in quel caso le richieste sono maggiori.
A questo livello comunque è il male minore.
Nei quadri alti la situazione è la stessa, cambiano solo gli importi che sono più elevati. A questo livello risiede il problema reale. I soldi vengono cortocircuitati a livello amministrativo, dagli amministratori degli ospedali, che sono i più corrotti: coloro ai quali i fondi governativi e dei grandi donatori vengo inviati per apportare migliorie al sistema. In questi passaggi vengono intascate le percentuali più rilevanti. Ad esempio in questo periodo sono stati stanziati direttamente dal Governo trecento milioni di scellini per l’ospedale di Iringa: la stima dei lavori effettivamente realizzati però è nettamente inferiore. Così le strutture non vengono costruite o ristrutturate o ampliate, mancano i presidi di base, e non è possibile ampliare il numero del personale né alzarli di livello né aumentare i salari, comprare i macchinari necessari e non si possono implementare le periferie.
Il problema risiede nella gestione della corruzione e dei furti: potrebbero accontentarsi di intascare il 25% ma tutti puntano a sottrarre il 98% e il sistema collassa e i principali colpevoli vanno ricercate tra i dirigenti. Loro effettuano le sottrazioni più ingenti, quelle che colpiscono e aggravano la situazione e la rendono immutabile. È una sorta di circolo vizioso che parte però dall’alto: con un aumento dei salari anche gli infermieri magari potrebbero smettere di farsi pagare in modo metodico i servizi teoricamente gratuiti anche dalle fasce meno agiate della popolazione. Ovviamente non è solo con l’aumento dei salari che si può bloccare l’intero sistema, ma con azioni molteplici, ma sarebbe comunque un inizio. Se i soldi per i lavoratori continuano ad essere bloccati dai quadri alti nulla cambierà.

Anche per i furti effettuati negli ospedali le dinamiche sono simili. La differenza è che in questi casi, quando viene richiesto al paziente il pagamento delle medicine, delle siringhe o altro può capitare che sia solamente a causa mancanza di materiale, rubato prima o dopo essere giunto a destinazione. Solitamente dagli stoccaggi spariscono farmaci e strumenti: l’occorrente che permette all’infermiere di creare una piccola clinica privata a casa ed avere così un secondo lavoro.

Le persone diversamente abili, fisicamente e mentalmente, sono dalla nostra esperienza discriminate in Tanzania. Come ha visto vengono trattate nell’ambiente ospedaliero?

Parlando di disabilità fisiche non sono assolutamente d’accordo. È importante differenziare i ‘casi’, casi limite o più o meno rari ma che restano pur sempre tali, dalla situazione della disabilità in generale.
La Tanzania è uno dei pochi Paesi dell’Africa sub-sahariana che ha varato un documento ufficiale che perlomeno prende dettagliatamente in esame il problema, il “National policy on disability” del 2004, benché non abbia i mezzi fisici ed economici per implementare programmi.
In Tanzania il 10% circa della popolazione è disabile: stiamo parlando quindi di 3.5 milioni di persone cieche, sorde, con problemi ortopedici, di paraplegici, di bambini con paralisi cerebrali infantili da parto. È il quarto problema dopo Aids, malaria e mortalità materna-infantile: è un problema molto costoso da affrontare. Spesso non bastano le medicine e servono seminari di educazione alle famiglie, scuole particolari ad esempio per cechi e sordi, strutture adatte.
In ospedale ho notato una risposta molto positiva dalle famiglie: quando sanno che è possibile avere una visita vengono regolarmente e con costanza. Le patologie ortopediche difficilmente si risolvono con un solo intervento ma necessitano di più trattamenti: nel 95% dei casi i disabili hanno seguito e completato l’intero iter. Questo significa che il problema non è mai stato ignorato dai parenti e i risultati positivi di questi casi comunque ha contribuito in parte anche ad abbattere credenze e tradizioni che però non risultano essere così negative. Uno studio antropologico ha preso in esame proverbi che riguardavano la disabilità nei villaggi: su 50 detti popolari solo uno aveva un tono dispregiativo, gli altri sono risultati essere positivi.
Non parlerei assolutamente di discriminazione ma di impossibilità di poter agire da parte delle famiglie dovuta sia alla situazione della famiglia stessa, povertà e lontananza dai centri ospedalieri, sia alle risposte delle strutture sanitarie che non sempre possono essere d’aiuto perché è un problema complesso anche dal punto di vista strettamente medico. Subentra quindi lo sfinimento e la rinuncia.
Infatti, quando esiste una speranza si impegnano per salvaguardare la salute e migliorare le condizioni di vita dei malati: in 20 mesi sono state effettuate più di 13.000 visite.

Che percezione ha del lavoro e delle iniziative delle organizzazioni non governative?

Medici con l’Africa CUAMM si è sempre occupato di sanità a livello di distretto o di regione e manda nelle zone di missioni solamente medici: in questo modo il suo punto di forza è avere una visione più globale del sistema sanitario. Inoltre i progetti sono strutturati sulle linee guida e i protocolli dei governi e sulle direttive delle regioni: si lavora nel e con il sistema senza fare nessuna imposizione. Naturalmente la limitatezza delle risorse permette di coprire piccole zone ed ecco che altre NGO o le missioni danno altre risposte al problema sanitario.
Manca una visione programmatica generale, che è certo difficile da ottenere, con la conseguente dispersione di mezzi finanziari e di energie. Inoltre noto sempre più spesso la mancanza di professionisti della cooperazione, di persone che facciano questo lavoro per scelta: c’è molta improvvisazione, personale impreparato e senza alcun titolo né esperienza. Certo è sempre più difficile trovare risorse umane, ancor più lo è trovarle preparate: è un dato di fatto.
Gli aiuti sono quindi molto frammentari e spesso si sovrappongono mentre altre zone restano completamente scoperte. Può capitare quindi di vedere vicino al dispensario governativo un altro creato dalle NGO. Visto che il primo non funzionava a dovere ne hanno costruito un altro secondo i loro parametri e slegato, autonomo per non dover dividere i limiti di risorse e gestione. Ogni NGO è spesso gelosa della propria idea e iniziativa, del budget e della risposta ai propri donatori. È d’altronde vero che il sistema sanitario ha grossi limiti, spesso si cerca di non dare in mano a dei tanzaniani i fondi per paura che non vengano ben gestiti o che vengano rubati e quindi le NGO cercano di essere il più autonome possibili.
Un caso emblematico: il governo non riesce a far fronte al problema Aids, soprattutto non riesce a far fronte ai numeri perché il fenomeno si sta allargando a macchia d’olio, e quindi in molti aprono le loro strutture. Ma l’Aids è un problema sanitario complesso purtroppo grazie anche a una eccessiva burocratizzazione delle varie fasi dei processi di diagnosi e cura, rallentati dalla lentezza tipica africana. Devono essere preventivati, perché sono necessari, medici preparati a riconoscere le diverse patologie e che sappiano anche occuparsi adeguatamente delle malattie opportunistiche e ha molte problematiche che comprendono la sfera sociale ad ogni livello. Inoltre queste strutture devono garantire la durata nel tempo: non è possibile pensare dopo sei mesi o un anno di chiuderle, non servirebbero a nulla senza una presenza continuativa. Certo con un medico espatriato tutto il sistema funziona più velocemente e per certi aspetti in modo più efficacie, per molti motivi di cui abbiamo già parlato. Tutti sono quindi generalmente entusiasti dei risultati nel breve periodo ma purtroppo, quando questi progetti finiscono, cosa che succede spesso in pochi mesi, di nuovo il problema si aggrava immediatamente e l’unico presidio che rimane è quello statale in cui nulla è cambiato, nemmeno un aumento del livello di preparazione dei lavoratori grazie a collaborazioni con lavoratori stranieri.
In ogni caso il problema è la non cooperazione tra tutte le varie realtà private tra loro e con quelle statali: con una maggiore coordinazione e pianificazione, soprattutto nei confronti degli ospedali e degli Health Centers governativi, ogni progetto potrebbe funzionare molto meglio.
Non è una critica perché questa è veramente una problematica complessa: è la descrizione dell’attuale situazione. La Tanzania garantisce un contesto tranquillo e sarebbe il momento di gestire meglio tutti i settori di intervento integrando anche l’ospedale governativo e le altre strutture nazionali con chi si occupa di servizi sociali, di istruzione e altro in una rete più completa.

Nella nostra esperienza incontriamo soprattutto membri dell’associazione o volontari che prestano servizio in maniera gratuita, o comunque missionari che non mettono necessariamente in pratica le nozioni studiate o praticano il lavoro che eventualmente facevano in Italia. La sua decisione è invece differente.

Io ho sempre voluto farne una scelta professionale: il lavoro che mi piacerebbe fare è il professionista nel continente africano. Mi sento preparato per dei posti di riferimento attraverso i quali ad esempio formare del personale attraverso il training.
Medici per l’Africa CUAMM ha questo tipo di approccio. Come già accennato i progetto non si rivelano solo un andare in un certo luogo per fare il proprio lavoro senza altri fini. La collaborazione con lo stato e il sistema sanitario nazionale, la formazione del personale e la perenne collaborazione mirano a un incremento dei servizi non solo per la competenza dei medici espatriati ma anche per un innalzamento del livello dei servizi in generale tramite un aumento delle competenze del personale locale.
Scegliendo di lavorare con questa associazione si condividono ovviamente anche tanti altri principi, non solo quelli professionali. Inoltre lavorando in ambiente sanitario in Africa si vivono anche tutte le componenti, sociali ed economiche, della sofferenza di questa gente e non è possibile, per coscienza, fare altrimenti.

Lei è sposato e ha tre figli. Come vivete questa scelta in famiglia?

È appunto una questione di scelte.
La famiglia italiana oggi, lo si legge su tutti i giornali, è il bersaglio dell’economia e di tutte le problematiche politiche. In Italia abbiamo un tasso di natalità sotto lo zero, uno dei tassi più bassi del mondo: la gente, anche se entrambi i partner lavorano, è talmente preoccupata da molteplici fattori (il mutuo, i sessanta metri quadri in cui vivere, il costo della vita) che le problematiche legate al futuro e ai figli diventano oppressive. Nessuno ha la possibilità economica di poter decidere di mollare il lavoro e di andare in Africa per un paio d’anni e tornare dovendo però cercare un’altra assunzione.
È strozzata in un sistema in cui è complicato solo pensare di poter partire da solo: partire con la famiglia è una scelta estremamente difficile. Io rientro in questa tipologia di famiglia: anche se il reddito di un medico in Italia può permettere alla moglie di non lavorare, ho comunque tre figli a carico da mantenere, ho anch’io il mutuo da pagare con tutti gli aumenti dei tassi di interesse eccetera eccetera. Però non è impossibile.
Di sicuro ci vuole coraggio ma è una scelta relativamente semplice. Le paure sono enormi prima di partire: riguardano più quello che si abbandona lasciando l’Italia che quello che si incontrerà in un altro continente. Certo dipende da ogni singolo paese e città ma non è poi così difficile mantenere uno stile di vita che assomigli a quello italiano.
Le paure iniziali inoltre risultano spesso essere fallaci, subentrano altre problematiche. Le relazioni sociali ad esempio vengono meno, qui dopo le sei di sera si sta in casa e la giornata è finita. Senza contare ovviamente i contesti più estremi caratterizzati da violenze e pericoli, intolleranza verso i diversi, in questo caso noi bianchi.
Poi bisogna tenere a mente che si può e si deve ritornare. È un ennesimo problema: anche se il progetto procede, marito e moglie sono in armonia e la famiglia ha trovato un suo equilibrio arriverà il giorno in cui bisogna ritornare a casa. Il cambiamento di contesto, sociale e lavorativo, non è così facile come si potrebbe pensare, può creare un disagio mentale e personale.
Per quando riguarda la mia professione, una volta tornato, dato che il sistema sanitario italiano è buono potrebbe venire da pensare a tutto quello che qui si lascia andando lavorare in posti in cui i servizi comunque sono assolutamente garantiti mentre qui non vengono coperti nemmeno al 3%. Possono insorgere problemi psicologici: il sentirsi inutili dove bisogna fare interventi di vene varicose mentre qui salvi la vita alle persone. Oltre che a livello personale insorgono problematiche anche a livello professionale: un lavoro di routine seppur più semplice è sicuramente meno gratificante di quello offerto da patologie complesse in contesti difficili. Oppure dopo essere stato all’estero c’è il bisogno di aggiornarsi, o solamente di riposarsi dallo stress accumulato. È una fase che molti medici di Medici per l’Africa CUAMM attraversano, ma a cui fortunatamente siamo stati preparati e siamo inoltre seguiti dopo il nostro rientro.
In ogni caso la famiglia è un cardine fondamentale che permette di stare qui con maggiore stabilità. Sono molte infatti le NGO che per i progetti a lungo termine preferiscono medici con famiglia rispetto a singoli la cui esperienza è più problematica e offrono meno certezze di una lunga permanenza.

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